Teoria e pratica del buon senso

La rubrica di Q Code Mag sul mondo della scuola

di Alessandro Macchia

Il settimo capitolo del libro di cittadinanza è intitolato all’educazione alimentare. All’insegnante non resta che ingoiare amaro.

L’educazione alimentare è uno di quegli argomenti che mettono a dura prova la tua autostima e le tue certezze di educatore. Suonata la campanella delle dieci e trenta, lanciato l’usuale invito («andate e ricreatevi!»), non resta che aspettare pochi secondi per verificare se sei stato persuasivo: ed eccoli tutti lì, in coda o, meglio, in ressa, al distributore degli snack e delle bibite, gassate e sgassate.

E che diamine! Avevamo pur detto che quelle cose ti uccidono la colecisti, e già tutti dimentichi del panino e della mela portati da casa.

Dai taschini fuoriescono monetine manco fossero salvadanai o la questua! Qualcuno, fatto il bottino, viene candidamente persino a offrirti un assaggio. È proprio la situazione in cui, per appurare se il tuo sforzo di insegnante ha trovato risposta, non devi attender tempo. Eppure la colpa non appartiene ai nostri golosoni, e nemmeno al professore. Le responsabilità ricadono in primo luogo sui dirigenti scolastici.

In seguito alla richiesta di deposito delle macchinette distributrici, le scuole aprono affollatissime gare di appalto. I vincitori della gara trasmettono alla scuola, a copertura dell’intero anno scolastico, dai 500 euro in su a macchinetta. I contratti stipulati hanno durata per lo più triennale e contribuiscono in percentuale dominante all’attuale esponenziale crescita del fatturato della filiera della distribuzione automatica.

Ad oggi le scuole italiane costituiscono la maggior fonte di guadagno del settore. Tutto ciò assume talvolta pieghe farsesche: non è infrequente, difatti, che il dirigente promuova un piano formativo incentrato sul benessere e sulla salute, consentendo nondimeno di collocare i distributori nei corridoi dell’edificio e favorendo l’occasione per fare l’uomo ladro o, detto altrimenti, il bambino goloso.

Il dirigente, è ovvio, si appellerà alla libera consapevolezza del fruitore, ma a imporsi sarà precisamente quel modello consumistico contro cui, sono ormai cinquant’anni, le scuole italiane, almeno a parole, si scagliano: io ti vendo il tale prodotto, ti dico che il tale prodotto può far male, tu sei libero di acquistarlo o meno. Come le sigarette insomma.

Il difetto di questo ragionamento sta però nel dimenticare che il fruitore del caso è un bambino, il quale non ha ancora introiettato il meccanismo virtuoso della mezza misura o del rischio, talché risulterà perfino inutile assillarlo con l’informazione che gli zuccheri creano dipendenza, non diversamente dalle sostanze aggiunte ai croccantini dell’aristocratica Royal Canin o di altri produttori di cibi per animali; o che l’industria del cibo ci sta facendo la pelle incrementando progressivamente la quantità degli zuccheri, finanche in prodotti in apparenza al di sopra di ogni sospetto come la salsa di pomodoro o gli yogurt.

A lato delle responsabilità del dirigente emergono vistose quelle dei genitori. Il povero insegnante torna al libro di testo, può essere che racconti le sue personali esperienze, ma mamma e papà non sostengono con adeguatezza l’ammonimento circa la gravità dei cattivi comportamenti alimentari.

In Gran Bretagna, a fronte di un aumento esponenziale dell’obesità, i presidi, è cosa di ieri, hanno inviato lettere alle famiglie, fornendo indicazioni dettagliate circa il giusto regime alimentare da seguire a scuola. Le lettere sono tornate al mittente con l’aggiunta di grassi e acidi consigli su come campare cent’anni.

In Italia nel luglio scorso tre parlamentari del Partito Democratico hanno presentato una proposta di legge per obbligare i gestori a riempire le macchinette di cibi e bevande genuine, anziché di snack, aranciate e coca cola. A questo punto la domanda è: possibile che sia necessario attendere una legge e non ci si possa affidare, dirigenti e genitori tutti, all’arte del buon senso?

Qualche tempo fa Lucio Pinetti, ex presidente dell’Associazione Italiana Distribuzione Automatica (CONFIDA) confidava(!): “Sarebbe una soluzione più efficace, invece di togliere gli snack, informare sui loro valori nutrizionali. In questo modo il distributore automatico può diventare un utile strumento di educazione alimentare”.

Auspichiamo non l’abbia udito qualche lungimirante dirigente scolastico: potremmo trovarci il distributore in classe, a fianco alla lavagna multimediale, come utile apparato didattico. Il presente articolo, ci scusiamo, non ambisce a illuminare o a informare su nulla di nuovo. Si esaurisce nel già noto. Ma il già noto è il ben dell’intelletto. Se lo si vuol notare.