My Jihad

Intervista al documentarista Rudi Vranckx

di Anna Maria Volpe

Mentre la violenza continua a diffondersi in Medio Oriente, molti giovani musulmani, provenienti da tutta Europa, abbandonano le loro città natali. Direzione Siria, con l’obiettivo di arruolarsi nelle fila dell’ISIS. In Belgio, solo nell’ultimo anno, oltre 400 giovani hanno preso una tale decisione.

My Jihad, è il documentario con cui Rudi Vranckx, giornalista belga della VRT News, analizza, con occhio attento e imparziale, le ragioni di questo feomeno. Il suo obiettivo è capire perché tanti giovani belgi si siano radicalizzati e come i leader della comunità musulmana stiano tentando di arginare un complesso problema.

Q Code Magazine ha intervistato Rudi Vranckx, che ha raccontato cosa lo ha spinto a indagare sulla questione e proposto delle soluzioni concrete.

Cosa ha fatto scattare la sua voglia di approfondire questo tema?

Il mio interesse verso il Medio Oriente è iniziato il 9 settembre 2011 e proseguito con le rivoluzioni arabe. Il giorno dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo ho realizzato che, nel mondo della radicalizzazione, dei cambiamenti molto profondi erano già in atto da tempo. Ho quindi iniziato, attraverso i social metwork, a dar voce a dei giovani immigrati di seconda generazione, soprattutto marocchini. In quel momento, ho percepito chiaramente la loro profonda insoddisfazione. Ho voluto quindi capire meglio le loro ragioni e un mese dopo l’attentato a Charlie Hebdo, abbiamo iniziato a girare il documentario. Mano a mano, le mie idee si schiarivano…

Quali sono le ragioni principali che spingono questi giovani a partire in Siria ?

Non c’è una ragione univoca , ma sicuramente ci sono dei tratti ricorrenti nei loro profili : spesso si tratta di giovani con una figura paterna assente o con relazioni familiari difficili. Spesso vivono delle crisi di identità, percepiscono un vuoto esistenziale, non sanno chi sono. Quelli che partono sono soprattutto magrebini poichè, nel corso del tempo, la loro identità è divenuta più fragile e il controllo sociale si è incrinato. Sono più integrati nella società rispetto agli immigrati di prima generazione ma, al tempo stesso, non sono completamente accolti, una sorta di situazione ibrida e scomoda. Credo che il nazionalismo esercitato dal paese d’origine possa essere per questi giovani un punto di riferimento, benché discutibile. Ci sono poi tutte le ragioni economiche e sociali : micro-criminalità, disoccupazione. Inoltre, le prigioni in Belgio sono dei luoghi culla del jihad : è lì che queste persone si incontrano e che la loro situazione peggiora.

Guardano il suo documentario, ho avuto l’impressione che parecchi giovani siano partiti senza avere un’idea chiara di ciò che li aspettasse in Siria …

Queste persone partono con un forte sentimento idealista che viene tradito una volta giunti a destinazione. Prima di decidere di lasciare il Belgio, hanno subito un efficiente lavaggio del cervello, tramite i social network che catturano, potentissimi, la loro attenzione. Su internet è facile interagire, sentire vicinanza anche se virtuale. Internet è diventato il il vero bacino di raccolta dei futuri jihadisti.

Quali aspetti sono stati sottovaluati dallo Stato belga?

Sicuramente, l’attività di reclutamento nelle strade. Pensiamo ad esempio a Sharia4Belgium (organizzazione radicale islamista, ndr). Questa rete di islamisti si è sempre mossa laddove ci sono giovani. All’inizio, nessuno li prendeva sul serio, tutti li abbiamo sottovalutati, quasi schernendoli e trattandoli come delle caricature di cattivo gusto. Invece, tutto ciò si è rivelato molto pericoloso. Nel 2011 nessuno si preoccupava di loro, eppure già nel 2012 tantissimi ragazzi sono partiti…

Qual è la reazione delle famiglie ? Riescono ad capire ciò che sta accadendo ai loro figli ? Che un processo inesorabile di radicalizzazione è in corso ?

La mia esperienza dice che tendono a non accorgersi di quanto accade. All’inizio le famiglie sono persino contente perchè vedono i loro figli allontanarsi dalla criminalità e avvicinarsi alla religione. All’improvviso, diventano più calmi, sereni. Quando poi i genitori si rendono conto, è troppo tardi. Spesso portano i figli in Marocco o cercano di farli allontanare dal Belgio, ma non c’è più nulla da fare.

Nel suo documentario, c’è anche la figura di un imam che diffonde il messaggio di un Islam secolarizzato e che svolge anche un attività di sostegno psicologico per i giovani musulmani che vivono male la loro religione nella società belga. Spesso non riescono ad armonizzare i precetti religiosi con la loro vita quotidina. Secondo lei quali sono i momenti « chiave » in cui è ancora possibile intervenire?

Ogni azione di questo imam ha l’obiettivo di non perdere la prossima generazione nei meandri della radicalizzazione. Agisce soprattutto sugli adolescenti. Per fare ciò, ha creato una scuola islamica dove spiega che l’Islam è tutt’altro che violento e che può esistere nel contesto di una società laica.

Crede veramente che con una scuola islamica sia possibile risolvere un problema cosi complesso ? Non vi è un rischio ‘ghettizzazione’?

Per me non importa se « il gatto è bianco o nero, ammesso che acchiappi il topo ». Certo, questo sistema non è laico, ha una chiara base religiosa. Ma forse, in questo modo alcuni giovani potranno trovare delle risposte che un sistema puramente laico, alla francese, non sa fornire. Poiché la religiostà esiste e, l’estremismo religioso anche, è piuttosto una soluzione « antidoto » ciò che dovremmo cercare.

Ci sono moltissime persone, politici e intellettuali che sostengono la visione di un Islam antitetico alla laicità, ma io non condivido questo pensiero.

In un mondo ideale, ogni religione sarebbe solo ed esclusivamente circoscritta alla sfera privata e intima di un individuo..

Certo, ma nel sistema belga attuale, nulla impedirebbe di creare una rete di scuole islamiche. Abbiamo le scuole cattoliche, quelle ebraiche. Perchè non avere delle scuole islamiche, chiaramente non finanziate dai sauditi ma dal Belgio stesso ? Se accettassimo questo ragionamento, fosse anche solo per una religione, lo dovremmo accettare per tutte. Non ci sono soluzioni ideali, bisogna essere concreti e captare le sfumature. L’imam che compare nel mio documentario, un belga fiammingo convertito all’Islam, parla con i giovani, li riceve, li consiglia. E’ stato isolato, perchè non amato nei cerchi radicali.

Com’è stato accolto dalla comunità musulmana durante le riprese?

Molto bene, abbiamo iniziato da Vilvorde (cittadina fiamminga con alto tasso di giovani partiti per il jihad, ndr). Cercavo un luogo preciso in cui fossero presenti tutti gli elementi. Abbiamo parlato anche con diversi rappresentanti delle scuole e delle Istituzioni.

Crede che le ingiustizie subite nella regione dal popolo arabo possano fungere da richiamo o comunque da elemento di aggregazione ?

Indubbiamente la sofferenza del popolo siriano ha un peso. Spesso coloro che sono partiti sentivano questo sentimento di ingiustizia ma non è questo il minimo comune denominatore della vita dei futuri jihadisti. Non si tratta di fini conoscitori della questione medio-orientale. E’ un’amalgama di frustrazione e discriminazione.

Qual è il peso del salafismo ?

L’influenza di Fouad Belkacem (leader ideologico e spirituale di Sharia4Belgium, ndr) ha avuto un ruolo cruciale. Qui in Belgio, il salafismo è la versione più diffusa dell’Islam. Se i giovani desiderano soddifare delle curioistà, o porre delle domande, riceveranno delle risposte di stampo salafista. Tuttavia, non vedo una relazione di causa-effetto come accade in altre parti del mondo. In Mali, ad esempio, lo Stato è debole e il salafismo trova una porta aperta. Il problema qui è che il salafismo è la dottrina più accessibile. Inoltre, i potenziali combattenti dell’ISIS, cercano semplificazioni. Una Islam nero su bianco fa al caso loro.

Quali soluzioni ?

Poichè la situazione non è chiara, non ci sono delle soluzioni chiare. Quindi il cambiamento deve avvenire su più livelli : militare perchè non possiamo permettere al califfato di esistere in quanto entità territoriale, deve avvenire sul piano diplomatico e dell’educazione delle future generazioni. Dobbiamo agire sul razzismo e anche a livello teologico devono essere emessi messaggi chiari e inequivocabili. Bisogna fare tutto ciò e farlo allo stesso tempo. Essere duri se necessario e flessibili quando occorre.

Continuerà a lavorare su questi temi?

Si, dopo aver finito My Jihad ho iniziato un nuovo progetto sui social network e ho svolto varie ricerche in altri paesi europei quali la Danimarca, la Germania, per vedere come hanno affrontato il fenomeno delle radicalizzazione. My Jihad è stato anche portato nelle scuole e utilizzato per dei fini didattici.