Domestic stories

Le collaboratrici familiari in Libano, tra diritti negati e rivendicazioni

di Rubina Paparelli

Nonostante la recente nascita del primo sindacato per le lavoratrici domestiche nell’area mediorientale e
nord africana, c’è ancora molto lavoro da fare per sensibilizzare sulla condizione di queste donne in Libano e nel mondo; da qui nasce l’impegno quotidiano di parte della società civile e di molte associazioni, per cui il cambiamento passa da una maggiore consapevolezza.

“Credo si debba parlare della situazione delle lavoratrici domestiche, sia nel mio paese che in Libano. Qui i ragazzi dovrebbero comprendere l’importanza dello studio per poter ottenere una buona posizione lavorativa, mentre in Libano i ragazzi dovrebbero essere più consapevoli di ciò che accade per provare a cambiare la mentalità all’interno delle proprie famiglie”.

È M., 46 anni, malgascia, a condividere questa riflessione, raccontando della sua esperienza come lavoratrice domestica in Libano. Portare il fenomeno delle lavoratrici domestiche all’attenzione dell’opinione pubblica è forse più arduo oggi che in passato, in un momento in cui la copertura mediatica si occupa di Libano principalmente per la sua crisi dei rifiuti e per la questione dei rifugiati siriani, la cui presenza fa sì che gli interessi di governi e donors si siano sensibilmente focalizzati su tale problematica.

Come suggeriva il report dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), intitolato The other migrant crisis e pubblicato nel 2015, è in corso da anni un’altra crisi, spesso ignorata,
quella dei lavoratori migranti.

Quale tutela? Vuoti e ambiguità all’interno di un quadro normativo debole. Al giorno d’oggi si stima che in Libano lavorino più di 250mila lavoratrici domestiche. Tutelare queste donne risulta una sfida all’interno di un paese che, nonostante la sua lunga storia di immigrazione, è tuttavia sinonimo di sfruttamento, discriminazione e limitato accesso alla protezione sociale.

Se da un lato sono stati ratificati i Protocolli di Palermo (2000) e una legge anti-tratta (164/2011)
ha emendato il codice penale libanese (1964), dall’altro tuttavia il Libano non ha ancora ratificato
molte convenzioni, tra cui la convenzione sui lavoratori migranti (c143, 1975) e la convenzione
sulle lavoratrici e i lavoratori domestici (c189, 2011).

Uno sguardo più attento alla situazione attuale rivela che lo scorso anno il Ministero del Lavoro ha rilasciato il 30% dei permessi lavorativi alle lavoratrici domestiche provenienti dall’Etiopia,
seguite da quelle provenienti dal Bangladesh (14%), dalle Filippine (12%), dallo Srilanka (5%) e
dal Kenya (3%).

Tutte queste lavoratrici rientrano nelle categorie più svantaggiate della forza lavoro libanese (3 e 4), precisamente le due categorie che raccolgono i lavoratori meno qualificati, una sorta di “lavoratori di serie B”. Per questo motivo l’articolo 7 del Codice del Lavoro libanese esclude le lavoratrici domestiche da tutte quelle forme di protezione di cui godono gli altri lavoratori, come il numero massimo di ore lavorative (48 h/settimana) e il salario minimo (fissato a 450$ mensili).

Persino la libertà di movimento – sebbene garantita dalla legge che regola l’entrata e la permanenza degli stranieri in Libano (1962) – è limitata dal sistema della kafala (sponsorizzazione).

M. è arrivata in Libano nel 2009, dopo che la scuola dove stava insegnando è stata chiusa per un incendio. “Insieme a mio marito ho deciso che rivolgersi ad un’agenzia di collocamento sarebbe stata la scelta migliore per trovare lavoro all’estero”, e così dopo soli sei mesi M. ha iniziato a lavorare per una famiglia libanese.

La kafala è l’unico sistema che regoli la presenza delle lavoratrici domestiche in Libano, per cui il diritto delle stesse di risiedere e lavorare nel paese è assoggettato ad uno “sponsor” (il datore di
lavoro o un’azienda locale); cambiare lavoro e quindi sponsor risulta praticamente impossibile,
così come fuggire equivale ad entrare in una condizione di illegalità punibile con l’arresto.

“Un giorno libero a settimana, una lettera alla mia famiglia ogni mese, assicurazione medica e uno
stipendio mensile… ecco quanto prevedeva il mio contratto, eppure ho lavorato senza sosta per 3
anni e 3 mesi”, racconta M.

Anche B., ex collaboratrice domestica keniota, spiega: “Ho parlato con amici di famiglia la cui
figlia era in Libano a lavorare in un hotel, e visto che stavo lavorando come receptionist in Kenya,
ho pensato di trasferirmi come lei per guadagnare di più. All’arrivo in aeroporto mi hanno
confiscato il passaporto e lo hanno consegnato al mio sponsor; inoltre ho subito capito che il mio
lavoro sarebbe stato diverso e che nel mio contratto mancassero tante informazioni, ma essendo in
arabo per la maggior parte delle ragazze è impossibile comprenderlo”.

È interessante notare, come osservato da Longuenesse and Tabar (2014), che il Codice del Lavoro libanese non menziona la kafala parlando dell’impiego di lavoratori stranieri, eppure il termine viene usato dalle agenzie di collocamento ed è presente anche all’interno della guida per le collaboratrici domestiche pubblicata dall’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) nel 2012.

Questa ambiguità è foriera di vuoti giuridici nella gestione dei diritti e delle responsabilità dei
datori di lavoro e delle lavoratrici.

raed-charaf

Illustrazione di Raed Charaf, tratta da The Legal Agenda

“Il mio primo contratto è terminato dopo 3 anni e 3 mesi”, riferisce M. “A quel punto ho chiesto di
essere pagata – avevo 10 mesi di stipendio arretrato – ma la mia Madame mi ha detto che sua sorella aveva bisogno di me nella sua pasticceria, così ho deciso di lavorare lì in attesa di essere pagata. La pasticceria era gestita dal marito della donna che mi ha insegnato a friggere i donuts, mentre una ragazza bengalese si occupava delle pulizie. Purtroppo un giorno questa è scappata e io ho dovuto iniziare ad occuparmi anche della sua parte di lavoro: friggere donuts dalle 5 di mattina e fare le pulizie fino alle 11 di sera, senza essere pagata, per 3 anni e 7 mesi! Ho continuato a chiedere il mio stipendio, ma ogni volta mi veniva detto di tapparmi la bocca e continuare a lavorare… Non avevo alcun diritto e l’unica ragione per cui avevo deciso di restare era guadagnare esperienza, con la vaga speranza di essere pagata”.

Mentre risulta evidente che le lavoratrici domestiche non godano di alcun potere di contrattazione
e non siano pertanto incoraggiate a cercare alcuna forma di protezione, è interessante sottolineare che la kafala venga considerata un vincolo dagli stessi datori di lavoro che percepiscono la gestione del rapporto di lavoro come una loro esclusiva responsabilità, senza alcun coinvolgimento dello stato.

A tal proposito sono state avanzate proposte per trovare misure alternative in grado di riformulare diversamente la relazione tra datori di lavoro e lavoratrici, a partire in primis dal processo di selezione delle stesse.

Di recente, con l’introduzione di un Contratto standard (2009) e di un Codice di Condotta (2013),
adottato dal sindacato delle agenzie del lavoro (SORAL), sono stati attuati alcuni emendamenti per
indebolire il potere delle agenzie di reclutamento. Ad esempio il nuovo contratto tenta di chiarire
quali siano diritti e doveri di entrambi le parti, tuttavia resta alquanto vago quando si tratta di
affrontare aspetti cruciali come il salario minimo e il tipo di compiti che spettano alla lavoratrice.

“Non si parlava di ore di lavoro, né di retribuzione, assistenza medica, caratteristiche del lavoro…
giusto una stanza arredata e accesso ad internet, ecco cosa conteneva il mio contratto. In più ho
anche versato 500 dollari all’agenzia libanese”, spiega B.

Attualmente due datori di lavoro su cinque continuano a versare i primi tre mesi di stipendio all’agenzia; inoltre, come nel caso di M. e B., molte lavoratrici domestiche pagano una cospicua
somma all’agenzia di reclutamento, nonostante ciò sia vietato dalla convenzione C181 (art. 7).

Senza dubbio ciò che più rafforza il potere di queste agenzie è il fatto che l’87% dei datori dilavoro abbia una scarsa conoscenza della legge – che in realtà consentirebbe loro di assumere una
lavoratrice senza alcun intermediario – e ciò fa sì che si preferisca ricorrere ad un’agenzia che
faccia da mediatore nell’eventualità di possibili contrasti futuri.

Per questa ragione, sebbene l’art. 9 della convenzione C189 (non ancora ratificata) proibisca la
reclusione della lavoratrice in casa durante i giorni di riposo così come il ritiro dei documenti
d’identità, il 94% dei datori requisisce il passaporto per paura di minare un rapporto di lavoro, in
cui gli stessi hanno investito tra i 1000 e i 3000 dollari.

Va poi ricordato che la mancanza di tutela legale, in molti casi, ricade sui figli dei lavoratori
migranti, i quali sono vittime del disaccordo tra la legislazione nazionale e quella internazionale.

Come illustrato nel report pubblicato nel 2015 dall’associazione Insan, la General Security
(autorità responsabile per gli stranieri) e il Ministero dell’Educazione hanno negato il rinnovo del
permesso di soggiorno ai figli dei lavoratori rientranti nelle categorie 3 e 4 ed hanno limitato
l’accesso alle scuole pubbliche e semi-private per i non-libanesi.

Da questo quadro d’insieme è piuttosto semplice comprendere il grado di vulnerabilità a cui le lavoratrici domestiche in Libano sono esposte. Ecco perché fare sensibilizzazione su questo fenomeno e prendere delle misure per migliorare la precaria condizione delle lavoratrici domestiche è tra le priorità di molte organizzazioni libanesi e internazionali.

Garantire una maggior tutela: sensibilizzare come motore di cambiamento. A tal proposito preparare e cooperare sembrano essere le parole chiave del lavoro congiunto tra associazioni nei paesi di origine e in Libano.

Nel 2012 l’OIL, tramite la mappatura dei servizi offerti dalle ONG alle lavoratrici domestiche, ha ricordato quanto sia necessario creare delle reti che lavorino assieme per fare advocacy e
condividere le proprie risorse.

“La cooperazione con altre associazioni e la condivisione di buone pratiche è uno dei pilastri del
lavoro svolto da Caritas Libano, poiché da sola non potrebbe fornire tutti i servizi legati alla
protezione delle lavoratrici domestiche. Caritas, così come molte altre ONG del settore, lavora a
stretto contatto con agenzie internazionali, come OIL e OIM, e altre organizzazioni nei paesi di
origine come il Migrant Forum of Asia, CARAM Asia e altre Caritas”.

Molte organizzazioni tra cui Caritas Libano, come Noha Roukoss – responsabile del dipartimento di advocacy – ha illustrato, stanno lavorando con i loro partner per costruire una rete di
associazioni la cui azione sia focalizzata sulla formazione pre-partenza e anche sul reinserimento
lavorativo nei paesi di origine.

“Collaborare significa contrastare ogni tipo di violazione perpetrata ai danni delle lavoratrici
domestiche, fare advocacy per apportare modifiche legislative e garantire così una tutela completa
per tutto il ciclo della migrazione” ha aggiunto Roukoss, facendo notare che nonostante spesso la
mancanza di fondi sia l’ostacolo maggiore, la cooperazione con partner come OKUP, Batis Center,
Caritas Sri Lanka, ECS Ethiopia, Pourakhi Nepal, resta di fondamentale importanza.

Per questa ragione, comprendere i bisogni e le difficoltà delle lavoratrici domestiche, una volta
tornate nei propri paesi di origine, diventa decisivo per poterle aiutare a reinserirsi.

“Una volta rientrata in Kenya ho avuto bisogno di assistenza psicologica per superare quanto vissuto in Libano”, racconta B.

Anche M. si è trovata in difficoltà: “ Ho trovato un Madagascar così diverso da quello lasciato nel
2009, la situazione è peggiorata, il costo della vita è aumentato e lo si vede semplicemente facendo
la spesa al supermercato. Inoltre gli incendi boschivi stanno causando molti problemi, non piove e
c’è scarsità di acqua. Mi sembra soprattutto che il divario tra ricchi e poveri sia aumentato e io
stessa ho disperatamente bisogno di un lavoro ora per permettere ai miei figli (14 e 18) di
studiare”.

Fortunatamente negli ultimi tre anni un gruppo di lavoratrici domestiche ha compreso che “fare rete” è il primo passo verso il cambiamento dello status quo.

Nel 2013 una lavoratrice domestica, in rappresentanza del Libano, ha preso parte al congresso di
fondazione della Federazione Internazionale dei Lavoratori Domestici (IDWF) in Uruguay, e al
suo ritorno ha fatto tesoro di questa esperienza.

Così, nel gennaio 2015 è stato creato il Sindacato delle Lavoratrici Domestiche, primo nel suo genere nella regione medio orientale e nord africana, grazie al supporto della Federazione Nazionale dei Sindacati degli Operai e degli Impiegati del Libano (FENASOL).

Nonostante alcuni impedimenti giuridici, legati al Codice del Lavoro libanese, e la mancanza di un
riconoscimento ufficiale, il sindacato sta crescendo ed è sostenuto da numerose associazioni come
KAFA, Anti-Racism Movement e il Migrant Community Centre.

Il governo libanese cerca in qualche modo di tenere il passo coi recenti sviluppi: nel 2015 il Ministero del Lavoro, grazie alla collaborazione di Caritas Libano e dell’OIL, ha lanciato un numero di emergenza per assistere le collaboratrici domestiche 24/7.

Questa iniziativa rientra nel progetto PROWD (Protecting the Rights of Migrant Women Domestic Workers in Lebanon, 2011-2014) finanziato dall’Unione Europea, che ha lo scopo di coinvolgere ONG, agenzie delle Nazioni Unite, istituzioni governative e associazioni locali per migliorare le condizioni lavorative delle lavoratrici domestiche, modificare la relativa legislazione, offrire formazione ai funzionari governativi e sensibilizzare l’opinione pubblica.

Roukoss riconosce che siano stati ottenuti alcuni risultati: “L’opinione pubblica libanese è ora più
consapevole grazie agli sforzi di varie ONG e soprattutto grazie alle campagne di sensibilizzazione. Dal 2002, quando Caritas ha lanciato le prime campagne, ad oggi, la percezione generale è cambiata e molte più persone stanno sostenendo il nostro operato”.

Senza dubbio c’è ancora molto da fare: quest’anno l’ONG libanese KAFA ha promosso una campagna di sensibilizzazione volta a valutare quale fosse il grado di conoscenza della condizione delle lavoratrici domestiche proprio tra i datori di lavoro, cercando di comprenderne la percezione.

Un video, che mostra con intento provocatorio alcun libanesi intenti a comprare un sapone speciale per far lavare le loro lavoratrici domestiche, ha rivelato quanti siano gli aspetti problematici e contraddittori che tuttora caratterizzano la relazione tra i libanesi e queste donne.

“Vorrei offrire il mio aiuto qui, in Kenya, per aiutare le ragazze del mio paese che intendono
trasferirsi nei paesi arabi e spiegare loro cosa le aspetta” conclude B., mentre prosegue i suoi studi in “Project Planning and Management” all’Università di Nairobi.

Senza dubbio sono ancora tante le azioni da intraprendere per migliorare la condizione delle
lavoratrici domestiche, ma averne consapevolezza e fare sensibilizzazione sulla questione è il contributo che tutti possono dare per dimostrare che si stanno ottenendo dei buoni risultati e
ascoltare finalmente qualche storia a lieto fine.