Aleppo, Zahouir: “Just go and do something”

Zaouhir è cambiato in queste settimane.
Da quando gli chiesi in una lunghissima chiacchierata via Skype se potesse raccogliere immagini e interviste per me. Per mostrarle qui, in Italia.

di Francesca Mannocchi

Se potesse raccontarmi come si vive ad Aleppo est.

Come si scaldano i bambini in una città con poca elettricità e senza carburante.

Come ci si cura, con quello che resta di un ospedale perché tutti gli altri sono stati bombardati.

Come si studia, nascosti sottoterra, con intorno l’eco dei bombardamenti.

Cosa si mangia, con la carne a quaranta dollari al chilo e la farina che non c’è.

 

 

Zaouhir è dimagrito. Ha il viso scavato e gli occhi stanchi.

E’ uno dei pochi rimasti a raccontare la fine della sua città, la sua caduta, le sue macerie.

Zaouhir fa il mio stesso lavoro, è un giornalista.

E oggi, che Aleppo sta cadendo tra i morti in strada, gli uomini giustiziati, le milizie sciite a bloccare l’evacuazione dei civili, la legna che è finita e la fame che avanza, Zaouhir lavora per tutti.

E’ la voce, instancabile, del dolore della sua gente.

E ci richiama, con umiltà, alla responsabilità che in questa parte di mondo sembra smarrita, quella verso la sofferenza e le ingiustizie subite dagli altri.

 

Ieri sera Zaouhir mi ha spedito un video. Ripete più volte: Just go, and do something. Fai qualcosa, fate qualcosa – lo ripete così tante volte che sembra una preghiera – fate qualcosa, scendete in strada a gridare per la nostra libertà.

Perché questa era la guerra in Siria, una rivolta per la libertà.

Ma oggi la confusione, l’assuefazione e i titoli caotici dei giornali ce l’hanno fatto dimenticare.

E hanno riposto in un cassetto, hanno nascosto nell’oblio, le ragioni di chi nel 2011 era in piazza a rivendicare il diritto a un paese libero.

 

Zaouhir fa il mio stesso lavoro, per questo fare domande a lui è stato da un lato molto semplice – lui sapeva che è nostro dovere raccontare, dunque chiedere, tanto e ripetutamente – dall’altro indescrivibilmente frustrante.

Perché c’è una traccia di non detto in ogni nostra conversazione.

Perché entrambi sappiamo che potrebbe essere l’ultima.

Perché, dice Zaouhir, ‘in fondo io sto raccontando Aleppo mentre aspetto di morire.”

Oggi mi ha parlato tante volte, l’ultimo messaggio registrato è stato interrotto dalle bombe.

Così gli ho fatto la domanda più difficile, gli ho chiesto se avesse paura di morire.

“Tutti hanno paura di morire.

Ma tutti oggi hanno paura di vedere la nostra morte.

Io l’ho vista, ho visto la morte dei bambini in strada, e se chiudo gli occhi vedo anche la morte che verrà, la morte delle donne nelle mani dell’esercito, dei civili che attraverseranno Aleppo e saranno giustiziati.

Io ho paura di morire. Come te, come tutti.

– Dice Zaouhir, il giovane di Aleppo, che mangia solo riso da mesi, che non ha acqua pulita per lavarsi, che ha raccolto cadaveri da terra, che non scappa perché non vuole far passare alla storia il messaggio che la gente di Aleppo venga salvata da chi per cinque anni l’ha bombardata.

Zaouhir, che cinque anni fa, giovanissimo, era sceso in piazza a gridare “Libertà”-

Io ho paura di morire. Ma più di ogni altra cosa, io ho paura di essere stato inutile.”