Betty Grable e Peppa Pig

pesci-rossi

 

– Signora, ma sta bene?

– Chiedo se c’è un medico in carrozza?

– No, grazie.

– Ok, allora faccio chiamare il 118.

– No, guardi che non è ..

– Pronto, ciao, Frecciarossa 9600. Mi serve un’autoambulanza al binario in Porta Susa.

Un racconto di Gaia Grassi

Ecco. Non doveva andare proprio così. Oggi avevo un appuntamento importante. Con una persona che non ho fatto in tempo a conoscere, ma che volevo salutare. Mi sono anche alzata prima per potermi vestire bene, elegante per l’occasione. Ho persino saltato la mia colazione preferita: yogurt greco+6 biscotti al malto+miele calabrese di zagara d’arancio. E forse questo era un segnale da interpretare, perché non è che non abbia avuto tempo: è proprio che non mi andava. Il secondo segnale è arrivato dal mio amico-vicino di casa: “Tesoro, ma che faccia hai? Sei verde. Stai bene?”. Ma pensavo fosse sonno arretrato misto all’agitazione degli ultimi giorni. In taxi poi sembrava tutto ok: ho addirittura duettato con il taxista in “(Everything I do) I do it for you” di Bryan Adams (https://youtu.be/vFD2gu007dc), ma la fin troppa enfasi messa in “There’s nowhere, unless you’re there. All the time, all the way yeah” deve avermi dato il colpo di grazia.

Sta di fatto che, appena salita in treno, parte la colica della vita. E star male in mezzo alla gente non è poi così bello. Ok, te ne freghi quando stai tanto male, ma il problema è che tutto sommato le persone non sono menefreghiste: sono empatiche, sensibili – e non credo sia una prerogativa dei passeggeri di Frecciarossa – quindi, se ti vedono accartocciata sul pavimento tra la porta d’uscita e quella del bagno, due su tre vengono a chiederti che cos’hai. E a poco serve il tuo “Grazie, non si preoccupi, ci sono abituata, ora passa”, perché ti si piazzano accanto e ti danno dei buffetti sulla testa. “Mi dispiace lasciarla qui, ma è sola?” …Eccola la domanda che ti salva: “Ma è sola?”. “No, sono con due amici, ma li ho obbligati a stare ai loro posti, perché in questi momenti preferisco starmene per conto mio”. Tadàn! Di solito così è fatta! E anche questa volta, infatti, funziona. Tranne che con lui. Il capotreno. Che comincia a cercare un dottore e che poi – avvilito probabilmente per l’epic fail registrato al suo vano “C’è un medico in carrozza?”, – si siede per terra, accanto a me, investendomi di mille parole che manco ricordo. A quel punto, la compagna di viaggio perfetta, dall’occhio lunghissimo, annusato il pericolo e colta la mia ricerca di un appiglio non trovato, si precipita in mio soccorso, con un pacchetto di fazzoletti di Peppa Pig, frapponendosi tra me e lui e investendolo a sua volta di domande sulla procedura da seguire in questi casi. Che è tutt’altro che semplice. Ormai lui sa che sto male (non è un’attenuante il fatto che me lo abbia carpito con la forza), quindi deve chiamare un’ambulanza che arrivi alla stazione, fermare il treno per almeno una ventina di minuti, aspettare che io venga portata via e ripartire.

  • Ma firmare? Non posso firmare e andarmene, come in ospedale?
  • Sì.
  • Yeah! A
  • Ma non glielo faccio fare. E ci vorrebbe comunque più tempo, ora che recupero i moduli, scavalco la gente in fila per scendere e glieli faccio compilare…
  • Damn!

Quindi nulla. Arriviamo a Porta Susa, scendiamo, sprofondo dalla vergogna nel leggere sul volto dei passeggeri (molto) fastidio misto a (un po’ di) comprensione (avrei voluto spiegare a ognuno di loro che io me ne sarei anche scappata, potendo, ma la mia performance sarebbe stata pessima), mi asciugo qualche lacrima (“Piangi. Stai tanto male?”. “No, è che avrei voluto essere Là”), rido nel salutare il compagno di viaggio col suo buffo cappello che corre per non perdere la coincidenza e arrivare – almeno lui – Là e non smetto di ringraziare la compagna-di-viaggio-perfetta-coi-fazzoletti-di-Peppa-Pig (d’ora in avanti: Cdvpcfdpp) per aver deciso, irremovibile, di stare con me.

Ok, l’autoambulanza arriva. L’autista paciarotto dagli occhi più blu blu blu blu blu blu blu blu blu blu blu blu blu di Paul Newman mi stordisce di domande che presuppongono decisioni che al momento non so prendere perché io, nella mia follia da post colica, ho sempre comunque l’intenzione di arrivare Là, in un modo o in un altro, ma Cdvpcfdpp prende in mano la situazione e, brandendo il suo pacchetto di fazzoletti, decide per me.

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Da questo momento in poi i miei ricordi sono una carrellata di immagini flash. Uno dietro l’altro. Alzo lo sguardo e mi trovo davanti due militari bionde, con trecce un po’ troppo sfatte, gote troppo piene di fard e mitra spianati, che mi sorridono e chiedono “Tutto a posto? Le facciamo portare un tè caldo?” Sobbalzo, credo mi sia uscito dalle labbra un malcelato “Uh, signur”, abbozzo un No grazie, abbasso di nuovo gli occhi e, quando li rialzo, sono legata sul sedile dell’autoambulanza, con l’angelo custode Cdvpcfdpp che mi controlla da dietro le spalle e che controlla soprattutto l’autista paciarotto, per capire dove diavolo ci stanno portando. Arriviamo, scendiamo, Cdvpcfdpp ha già tutto pronto (miei documenti, dati sensibili che deve avermi chiesto prima, credo… spero, altrimenti è anche magica) e cerca di decidere anche in che reparto farmi portare, ma su questo gli infermieri sono irremovibili. E così, dopo una buona mezz’ora, mi trovo sdraiata su un lettino nella corsia di Ginecologia, senza scarpe, con una calza rotta (Nonna, giuro che si è rotta salendo sul lettino. La mattina sono, come sempre, uscita di casa con tutto coordinato, pulito e aggiustato… “Sai, nel caso succeda qualcosa…”) e braccia e mani distrutte dai tentativi di una bellissima infermiera – una potenziale ex pin-up degli Anni 50… la versione attempata di Betty Grable in “Come sposare un milionario” in camice bianco e rosa, per l’esattezza – di trovarmi una vena per la flebo. Betty Grable mi nasconde dietro un paravento bluette per lasciarmi un po’ di privacy (deve aver apprezzato i miei complimenti) o per nascondere gli arti da lei martoriati (deve aver temuto l’arrivo di qualche superiore), e ogni tanto vedo spuntare la testa di Cdvpcfdpp, pronta per farmi ridere con qualche aneddoto sui pazienti, per aggiornarmi sul suo carteggio con mia madre o per sincerarsi che stia bene. Tra l’altro, è lei ad accorgersi che l’incavo del mio braccio all’improvviso si sta gonfiando come una pallina da tennis: muovendomi, l’ago deve essere fuoriuscito dalla vena e il liquido si è accumulato sottopelle… “Ihihih, ma non preoccuparti, non è nulla di grave”, mi rassicura Betty. Sfinita, seguo il consiglio di Cdvpcfdpp (ormai decide tutto lei) e provo a dormire un po’, cullata dal rumore del monitoraggio della paziente accanto.

– “Cdvpcfdpp”.

– “Dimmi”.

– “Ma è il cuore di un bambino, questo?”.

– “Sì”.

– “Uau”.

 

(Nda: no, Cdvpcfdpp non la conoscevo già. Siamo state presentate l’una all’altra la mattina stessa in stazione, appena prima di partite, dal terzo compagno di viaggio – almeno lui arrivato Là, a destinazione… alla giusta destinazione –. Ora devo sdebitarmi: minimo minimo con una partita di fazzoletti di Peppa Pig)