Call center alla portoghese

Reportage dalla nuova frontiera della flessibilità europea

di Marcello Sacco, da Lisbona

Una delle caratteristiche della piccola (ma in espansione) comunità italiana del Portogallo è che in pochi sono venuti qui per lavorare. È un dato ricavato un po’ a naso e non supportato da accurate statistiche, però è forte la sensazione che si finisca da queste parti inseguendo un amore, qualunque esso sia: un uomo, una donna, un’onda da surfare o un poeta, come ha più volte raccontato Antonio Tabucchi narrando il colpo di fulmine della prima casuale lettura di Bureau de tabac, traduzione francese di Tabaccheria, la splendida poesia di Pessoa/Álvaro de Campos che, più tardi, lo stesso Tabucchi tradurrà in italiano: “Non sono niente./Non sarò mai niente./Non posso voler essere niente./A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo”.

Intendiamoci: non parliamo di una comunità di scansafatiche (categoria di per sé rispettabilissima), ma non si veniva qui in cerca di miniere o fabbriche, come in Belgio e Germania. Tutt’al più a dirigere la sede distaccata di una multinazionale, ma questo è un altro tipo di emigrazione. La necessità e la ricerca di un lavoro, in Portogallo, di solito seguivano una decisione precedente, quella di fermarsi, di non farsi bastare il tempo trascorso a fare dell’altro.

Da qualche anno a questa parte, però, il Portogallo è diventato uno degli eldorado delle multinazionali dei call center (Teleperformance, Sitel, Altice ecc…), che offrono decine di migliaia di posti di lavoro (1% dei lavoratori attivi), fatturato e investimento estero in forte crescita anche negli anni più duri della recente crisi economica, e poi sedi diversificate e sparse ben oltre le due grandi città di Lisbona e Oporto.

Questo sembra aver alterato anche le traiettorie dei disoccupati italiani, che sempre più numerosi sbarcano da “emigranti normali”, in cerca di uno stipendio e senza sapere molto del popolo che li accoglie.

I colloqui di lavoro si svolgono su Skype e spesso, per testare lo spirito d’intraprendenza del candidato, gli si chiede di fare un biglietto di sola andata nel giro di pochi giorni. L’inizio dell’attività è immediato e il rimborso del viaggio è previsto solo dopo nove mesi di lavoro. È arrivato pressappoco così Emiliano Pinna, dalla Sardegna, con alle spalle varie esperienze lavorative, molte delle quali proprio nei call center, e in più un’attività di volontariato politico per l’allora candidato di SEL a sindaco di Cagliari, Massimo Zedda (nel frattempo giunto al suo secondo mandato).

Massimo Arondello invece, piemontese, dopo la laurea in Semiotica ha fatto un po’ di tutto nell’ambito di quello che Luciano Bianciardi immortalò con il titolo di “lavoro culturale”: giornalismo, teatro, cineclub, traduzioni… Quando l’agenzia di comunicazione per la quale spaziava dall’ufficio stampa al ruolo di creativo cominciò a pagarlo con buoni acquisto nei negozi che compravano pubblicità da loro, capì che era meglio cambiare aria. Vista la sua vecchia militanza nei movimenti anti-TAV, non è da escludere che il ministro Poletti si riferisse proprio a lui quando parlava di cervelli in fuga che era meglio non avere tra i piedi. A Lisbona Massimo, che sui call center è capace di citarti tanto il reportage più recente come gli ormai classici Ascanio Celestini e Michela Murgia (con annesso film di Virzì, Tutta la vita davanti), è stato un lavoratore impegnato, ma mai sottomesso. Criticava il rigido sistema gerarchico, il controllo asfissiante dei superiori, i ritmi di lavoro massacranti e i contratti precari (si arriva al caporalato delle assunzioni giornaliere). Una volta ha persino denunciato la presenza di pulci sul luogo di lavoro. È stato licenziato, e per un certo periodo (finché è durato il sussidio di disoccupazione) è tornato al lavoro culturale nella città che aveva imparato ad amare. Poi si è rimesso on the road e oggi vive e lavora alle Baleari… in un call center.

Fra le altre cose, questi luoghi sono anche un punto d’osservazione privilegiato sulle diseguaglianze interne all’Europa. Nello stesso ufficio tedeschi o scandinavi, a parità di titoli, possono guadagnare più di un italiano; il quale, a sua volta, in Portogallo guadagnerà più di un portoghese.

A determinare la busta paga sono infatti le prospettive di lavoro e il trattamento salariale che il tuo Paese d’origine ti può garantire, ma anche la rarità della lingua che parli. Qui è ovviamente inflazionato il portoghese, l’inglese è alquanto scontato, richiestissimi sono norvegese, svedese e olandese, mentre si favoleggia che verrebbero pagati a peso d’oro gli iraniani; ed è previsto un compenso anche per i dipendenti che procacciano questo tipo di contratti (ma solo se il neoassunto resiste e non scappa prima di un certo numero di mesi).

A rendere il Portogallo così appetibile per queste multinazionali sono proprio le garanzie di flessibilità, il basso livello salariale e i prezzi del mercato immobiliare. Il contratto infatti, oltre a uno stipendio che si aggira attorno agli 800 euro netti (ma può salire a seconda dei progetti ed è comunque ben al di sopra del salario minimo nazionale, che solo negli ultimi tempi ha superato la soglia dei 500 euro lordi), include l’alloggio, ossia una stanza o posto letto in appartamenti di sei/otto coinquilini, i quali si ritrovano a vivere come eterni studenti, anche dopo i 40 anni. Condividono fornelli, frigorifero, la musica della stanza accanto e più di una sfuriata, specie se ci sono di mezzo crisi di coppia, che l’appartamentino ti consente subito di collettivizzare.

Per molti diventa l’occasione per una vacanza-lavoro, un’esperienza all’estero come tante. Per altri una sponda a cui aggrapparsi quando “tutti i sogni del mondo” rischiano di naufragare.

Antonio Cardiello per esempio – un dottorato in filosofia e una lunga sfilza di pubblicazioni su Fernando Pessoa tra convegni internazionali, articoli ed edizioni critiche – ha trascorso sei mesi al telefono per Barclays prima di passare ad Accenture. Il calabrese Luca Onesti è caduto nel gorgo dell’outbound (sono quelli che telefonano e vi chiedono se avete “un minutino”) rischiando di non laurearsi più; poi ha finito gli studi e ora si dedica a video e fotoreportage (è coautore di un libro sulla storia del ciclismo portoghese, C’era una volta in Portogallo, e di Lisbon storie, film sugli italiani di Lisbona che ha circolato per qualche tempo anche sui siti dei maggiori quotidiani nazionali). E se per i precari il terrore corre sul filo (la minaccia del telefono è dietro l’angolo), la speranza è sempre quella di riuscire a conciliare la paga mensile con l’appagamento vero. Come per la vicentina Consuelo Peruzzo, grande amante della letteratura brasiliana (su cui frequenta un dottorato all’università di Lisbona), ma attualmente impegnata a tempo pieno nel back-office di BNP Paribas, dopo una lunga gavetta in Sitel.

Più che la retorica sulla fuga di cervelli, buona solo per le scaramucce politiche interne (il cervello in fuga quasi sempre oscilla fra il povero figlio abbandonato al proprio destino e la sedicente star capace di fare altrove le faville che in patria il malgoverno di turno non gli permetteva), interessa il segno di ciò che qualcuno potrebbe definire come un aspetto della nuova intelligenza di massa; ossia una gran quantità di gente di qualità, competente, colta, naturalmente poliglotta, che né l’industria né l’accademia riescono sempre ad assorbire e valorizzare come meriterebbe. E allora anche nel call center meno pulcioso, con le cuffie che ronzano nelle orecchie e il miraggio della pausa caffè non troppo distante, risuonano i versi immortali di Tabaccheria: “Sarò sempre quello che non è nato per questo;/sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;/sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta/davanti a una parete senza porta”.

 

L’immagine in apertura è una foto di World Bank Photo Collection tratta da Flickr in CC.