Rinascimento gambiano?

Yahya Jammeh ha lasciato il potere. Cosa lascia all’Africa la crisi del Gambia

di Lorenzo Bagnoli

La crisi in Gambia apre uno squarcio in Africa. Uno squarcio da cui può penetrare una luce, non solo per il piccolo Paese dell’Africa occidentale, ma per il continente intero. Il grande dittatore Yahya Jammeh alla fine ha ceduto: ha abbandonato Banjul, la capitale dove si asserragliava dall’inizio dell’anno. Ha accettato l’esito delle urne e ha lasciato il Paese, per trovare rifugio in Guinea Conakry. Dopo aver rischiato di trascinare il Paese nelle guerra civile.

Di fatto il Gambia per quasi due giorni ha avuto un esercito occupante e due presidenti: uno legittimo, l’altro un usurpatore.

Quello legittimo si chiama Adama Barrow: ha vinto contro ogni pronostico le elezioni del primo dicembre. Ha 65 anni, ha lavorato negli anni Novanta come addetto alla sicurezza a Londra per sfamare la famiglia e dal 2006 è un importante imprenditore immobiliare in patria. Una persona normale.

Il presidente illegittimo, invece, era il dittatore Jammeh. Coetaneo di Barrow, ha acquistato il potere con la forza nel 1994. Ha ignorato il verdetto elettorale e non ha rispettato l’ultimatum imposto dal Senegal, a capo di un contingente di peacekeeping dell’Ecowas, l’unione economica dell’Africa occidentale, composta da truppe di Nigeria, Ghana, Togo e Mali. Il pericolo di un conflitto era dietro l’angolo.

Eppure, alla fine, il Gambia ha vinto. E con lui, il Senegal (soprattutto) e la Nigeria: a liberare il Paese sono state le potenze africane, senza bisogno di alcun intervento dall’estero. A gestire le trattative è stata Ecowas, con il Senegal in prima linea.

In questi ultimi giorni è scaturito un certo orgoglio, forse un o’ ingenuo, giustificato dal fatto che Francia e Gran Bretagna per una volta si sono limitate a guardare. L’entusiasmo riverbera sui profili twitter dei gambiani all’estero, principali contribuenti economici della campagna elettorale di Barrow.

Sono loro, in fondo, i motori di questo cambiamento, pieni di vogliano riscatto e di rivincita.

In un mondo ideale, i potenti “normali” protagonisti di questa pagina di storia, come Macky Sall, il presidente del Senegal, forte di questo rinnovato orgoglio, rinuncerebbe alla mancia l’Europa attraverso il fondo Africa Tust Fund. Perché quella non è l’Europa che serve all’Africa, quella che mercifica la cooperazione per farne un bene di scambio: soldi a fronte di qualche migrante trattenuto. Un’offesa per il continente intero. E sarebbe altrettanto utopico vedere il neopresidente Barrow ricostruire un tessuto economico in Gambia, Paese dove in migliaia fuggono per avere un’alternativa. In questo piccolo spicchio di Africa occidentale, così, si potrebbe finalmente cominciare a parlare di una pagina ancora minoritaria, quella delle storie di successo dei migranti di ritorno, sempre di più in Senegal, che hanno trasformato da soli ciò che hanno guadagnato fuori dal Paese in un investimento in casa.

Una buona novella che in tanti fanno finta di non vedere.

Oppure, dove i festeggiamenti, la fine della storia sarà di nuovo all’africana. E l’esilio dorato pattuito da Jammeh in casa di un altro dinosauro della politica africana, come il guineano Alpha Condé, non promette bene. E ancora peggio andrebbe se, una volta insediato a Banjul, Barrow cominciasse a spartire il potere con quel che resta degli uomini di Jammeh, condannando il Paese al persistere dell’oligarchia. Un fallimento sotto ogni aspetto. L’ennesimo gattopardismo. Una distopia che non deve avverarsi.