Culture del martirio

Alcune note sul recente libro di Fabio Dei, “Terrore Suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio”

di Lorenzo Urbano, tratto da il lavoro culturale

All’interno dell’opinione pubblica, il terrorista-martire (solitamente di religione islamica) è una figura percepita come aliena, deviante, che incarna il massimo del fanatismo religioso e della violenza irrazionale, ai limiti della follia e della patologia. Su scala più ampia, le azioni suicide vengono spesso inserite all’interno di una narrazione dello “scontro fra civiltà”, che postula l’assoluta incompatibilità fra la cultura occidentale e le culture “altre”, la futilità ultima di ogni processo di conciliazione e assimilazione, e quindi l’inevitabilità del conflitto.

Il terrorismo, e in particolare il terrorismo suicida, è segno dell’impossibilità del progetto di globalizzazione multiculturalista, strumento di civiltà “barbariche” che minacciano il nostro stile di vita: non necessita di altre spiegazioni, tantomeno di comprensione. Ma anche spostandoci all’interno dell’accademia, è difficile avere un quadro più chiaro sul fenomeno.

In ambito politologico, la prospettiva dominante tende a vedere il terrorismo suicida sotto un profilo geopolitico-militare, sottolineandone l’utilità strategica e quindi la razionalità; la psicologia sociale si concentra sulle motivazioni individuali degli attentatori, cercando di cogliere il processo di costruzione della loro soggettività; gli studi postcoloniali inseriscono queste pratiche all’interno di una più generalizzata reazione contro l’imperialismo (militare, economico, culturale) dell’Occidente.

Tuttavia, ciascuna di queste prospettive ha delle zone d’ombra e delle tendenze pericolosamente riduzioniste rispetto alla complessità dei rapporti di potere e delle reti di significato che intrecciano le pratiche e le culture del terrorismo suicida.

Ed è qui che Fabio Dei cerca di inserirsi con il suo Terrore Suicida, che si propone di avvicinare il fenomeno da un punto di vista spesso ignorato e che invece rivela la specificità (e l’utilità) dello sguardo dell’antropologia sul mondo sociale: quello dei milieu culturali all’interno dei quali tali pratiche prendono forma.

Il testo si apre con una rassegna degli studi sul terrorismo suicida, notando in prima battuta un forte scollamento: se nel linguaggio comune alla categoria è associata un’immagine precisa e priva di ambiguità, solitamente quella degli attacchi alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, chi ha cercato di definire il fenomeno in maniera analitica si è scontrato con innumerevoli difficoltà.

L’apparente impossibilità di raggiungere un consenso accademico inizia sin dalla definizione stessa del fenomeno, sulle cui caratteristiche necessarie e sufficienti il dibattito è ancora aperto, ma si espande poi a raggiera in tutte le direzioni: come già abbiamo notato, e come Dei sottolinea, ogni disciplina ha un suo portato specifico, e si concentra (prevedibilmente) su alcune facce del terrorismo a scapito di altre.

Ma una delle faglie che per Dei sono più significative è quella che separa gli studi cosiddetti “ortodossi” sul terrorismo da quelli “critici”: una separazione non tanto e non primariamente analitica quanto etico-politica. Da un lato gli studi “ortodossi” si fondano su di una prospettiva liberal-democratica per la quale “società civile e Stato sono i presidi della pace e della convivenza”.

Perciò, l’azione del terrorismo in questo contesto è rappresentata come proveniente da un altro non statale, che porta con sé violenza e disordine.

Dall’altro lato, i “critici” pongono all’origine della violenza politica quegli stessi Stati-nazione che gli ortodossi vedono come ultimo baluardo difensivo. Invertendo la prospettiva, i critici intendono dunque mostrare come gli Stati siano i primi attori a rendersi colpevoli di forme di violenza che negli altri etichettano con la categoria demonizzante di “terrorismo”; anzi, spesso il terrorismo dei subalterni globali non è che un riflesso del (ben più grave) terrorismo di Stato dell’Occidente imperialista.

Nessuno di questi due approcci analitici è per Dei soddisfacente per la comprensione del fenomeno del terrorismo suicida. La visione del mondo degli “ortodossi” è indubbiamente troppo legata al mito dello “scontro tra civiltà” e alla netta contrapposizione noi-loro che da esso discende; inoltre, ignora tutte quelle forme di violenza (sia interna che esterna) che effettivamente hanno la loro origine nello Stato e nella sua azione imperialista.

Ma anche la posizione critica ha i suoi punti deboli: non solo l’allargamento del campo semantico della categoria di terrorismo rischia di annacquare la sua specificità e quindi la sua capacità analitica e descrittiva; soprattutto, i “critici” tendono, nella loro condanna dello Stato in quanto origine di tutti i mali della modernità, a ragionare per essenzializzazioni, a creare una generica e onnicomprensiva categoria che nasconde le concrete e molteplici forme che lo “Stato” ha storicamente assunto.

L’obiettivo di Terrore Suicida è quindi di allontanarsi da queste prospettive etiche e analitiche, così come da quelle della politologia e della psicologia sociale, e porsi una domanda ben diversa: quali sono gli ambienti culturali e morali che rendono possibile la pratica del terrorismo suicida, e anzi ne fanno una virtù sociale?

È a cercare una possibile risposta a questa domanda, e a indagare le culture del martirio, che Dei dedica la seconda parte del testo, nel tentativo di offrire una prospettiva propriamente antropologica sul fenomeno.

Concentrandosi in particolare sul caso palestinese, sul quale è presente una più nutrita letteratura scientifica, Dei concentra il suo sguardo su “le pratiche, i segni, i discorsi” presenti negli ambienti culturali in cui emergono queste etiche del martirio. Il pilastro portante della sua argomentazione è la rinnovata attenzione al ruolo della religione: non è possibile giungere alla comprensione del terrorismo suicida “liberandoci” delle sovrastrutture religiose come se fossero caratteristiche puramente superficiali o fuorvianti; al contrario, la violenza degli attacchi suicidi è comprensibile e trova il suo significato sociale soltanto all’interno di contesti e discorsi religiosi specifici.

È qui fondamentale notare che anche pensare la religione strettamente nel suo contenuto teologico finisce per portarci fuori strada: ciò che interessa a un’analisi antropologica è la religione in quanto forma di vita, in quanto filtro interpretativo della quotidianità e in quanto lessico morale attraverso il quale si rappresentano le relazioni sociali, sia su scala ristretta (e comunitaria) sia a livello più ampio ampio (globale). La religione produce violenza solo all’interno di una poetica sociale condivisa, di reti di significato profonde e pratiche incorporate: è un modo di stringere e rafforzare i legami, uno strumento per ottenere riconoscimento sociale.

Dei invita perciò a superare l’idea della religione come residuato primordiale e irrazionale, in una prospettiva positivista secondo cui la secolarizzazione è segno inequivocabile di progresso; al contrario, la religione è una diversa forma di razionalità, distinta da quella dell’homo œconomicus e che quindi fonda pratiche e discorsi diversi.

Comprendere il ruolo della religione nella violenza islamista, e in particolare negli attacchi suicidi, non significa validare la posizione sin troppo diffusa nel discorso pubblico secondo cui l’Islam sarebbe una religione inerentemente violenta.

Significa riconoscere che le soggettività dei terroristi-martiri, lungi dall’essere semplicemente plasmate dal risentimento e dal desiderio di vendetta, sono profondamente iscritte all’interno del linguaggio morale della religione e delle reti relazionali e di significato che essa fornisce. Ma comprendere non significa nemmeno giustificare, dissolvere la responsabilità individuale e collettiva di queste forme di violenza rappresentandole come conseguenza diretta di alcuni ambienti culturali o contesti politici.

Da qui gli appunti critici mossi in conclusione da Fabio Dei alle posizioni dell’antropologo Talal Asad, probabilmente il più eloquente e influente rappresentante della posizione che Dei definisce “critica” sul terrorismo suicida.

Asad, come molti altri critici, ritiene totalmente fuorviante interrogarsi sulle motivazioni degli attentatori: porsi queste domande, e in particolare cercare di comprendere il ruolo giocato dalla religione, significherebbe negare la natura eminentemente “politica” della loro azione, che egli preferisce interpretare in quanto reazione alla violenza degli stati imperialisti occidentali. L’argomentazione di Asad ruota infatti intorno a un’unica tesi: la violenza terroristica è simmetrica e complementare, mimetica, rispetto a quella esercitata dagli stati moderni.

Quindi, analizzare il terrorismo è costruire una genealogia critica della violenza statale e, in ultima analisi, dello Stato stesso, inseparabile dal suo contenuto di violenza.

Sebbene Dei riconosca l’utilità della prospettiva postcoloniale di Asad nello smascherare le conseguenze del dominio coloniale e della violenza imperialista (anche nella stessa antropologia), egli rifiuta le implicazioni morali che discendono da posizioni come quella di Asad e di altri critici. Per questi ultimi esiste «una e una sola violenza essenziale, quella dello stato». Essi vedono lo stesso terrorismo come un suo riflesso, e ritengono dunque incompatibili comprensione e condanna del fenomeno, in quanto espressione di un posizionamento politico a favore o contro quei soggetti postcoloniali che lo praticano.

Comprendere, ricorda Dei, significa semplicemente «conoscere i contesti, ricostruire le cornici esperienziali e culturali che danno significato (…) alle azioni e ai discorsi» degli individui. E nello studio delle pratiche di violenza questo non può avvenire a scapito del riconoscimento della responsabilità di tali azioni e discorsi. In questo come in altri casi, comprensione e condanna non possono che procedere in parallelo.