Il grande U.

Un racconto di Federico Gaudimundo

Regressione.
Allo stato prenatale.
Il grande Utero che ti accoglie in questo caso si chiama Ospedale e il suo scopo è renderti completamente dipendente.
Da qualcun altro. Si chiami dottore, caposala, infermiere o semplice cambia-pappagalli.
TU dentro sei meno.
Non conta il fatto che tu sia simpatico, antipatico, spiritoso, odioso, bello o brutto.
Sei un paziente e basta. L’iniziativa è scoraggiata. Qualunque iniziativa tu possa prendere, indipendentemente dal fatto che sia o meno una buona idea. I nascituri hanno forse idee?

Da subito ho capito perché si dice paziente. È una virtù che devi esercitare all’ennesima potenza.
08.00 – Mi mettono subito alla prova. Il n° “411-Precedente” ha infatti deciso che questo suo soggiorno se lo deve godere fino all’ultimo. Così rimango in parcheggio circa sei ore su una sedia di legno come “411-Successivo”, in attesa di diventare il “411-titolare”.
Mi fanno un’iniezione in corridoio. Forse a scopo intimidatorio.

14.00 – Il mister mi fa segno di entrare. Prendo possesso del mio letto e mi guardo intorno un po’ spaesato. In camera c’è già complicità e devo adattarmi. Tre persone che probabilmente nella vita non avrò più modo di incontrare, né comunque sceglierei come interlocutori, sono i miei compagni di viaggio. La regressione oltre che la prossimità fisica naturalmente ci avvicina e dopo qualche minuto ci sembra di non aver frequentato mai nessun altro. Nell’ordine c’è il SIGNOREANZIANOCHENONNEPUÒPIÙ, QUELLOCHELASALUNGA più o meno quarantenne, IO e QUELLOCHENEFAREBBEVOLENTIERIAMENO. Il più spaventato.

Facciamo tre menischi sani in tutto. Ci complimentiamo vicendevolmente per la depilazione praticata la sera precedente. Grazie al cielo nessuno ha voglia di indugiare sull’esperienza del clistere sulla quale sorvoliamo con eleganza.

Il più chiacchierone è il quarantenne. Ci illustra tutti gli interventi che ha fatto, i tipi di anestesia, di ospedale, perfino le tipologie di infermiere preferibili. Ostenta indifferenza all’operazione. Ognuno recupera nella memoria un lontano cugino o amico che si è bevuto lo stesso intervento come si beve un’aranciata al bar in un pomeriggio di primavera, traendone benefici inimmaginabili e fascino irresistibile con le donne. La sottile tensione che attraversa i nervi però è palpabile e la comparsa del prete a benedire la stanza certamente non aiuta.

16.00 – Tocca a me e a QUELLOCHELASALUNGA. Mentre ci dirigiamo accompagnati dalle infermiere in sala operatoria, il mio compare è prossimo allo svenimento. Per quanto posso gli faccio coraggio. L’infermiera ci chiede quale menisco sarà operato. Fingo di non saperne nulla e di essere lì per una vasectomia. Non capisce o non apprezza l’ironia e mi regala uno sguardo al limite della compassione. Poi guarda lui e senza dire nulla unisce le dita nel tipico gesto che significa “Ti caghi sotto, eh?”. Per il resto del tragitto QUELLOCHELASALUNGA non parlerà più.

17.00 – Guardo il mio menisco in TV mentre il chirurgo mi spiega perché lo sta trattando a quel modo.
Ho avuto la netta impressione che quando ha infilato la telecamera si sia chiesto: “Ma questo perché cazzo lo opero?”. Proprio mentre me lo stavo chiedendo anche io.
Superato l’imbarazzo è andato avanti per la sua strada e a me è sembrato di stare a Quark.
È stato l’unico momento in cui tutto è parso avere un senso e io e il mio ginocchio abbiamo smesso di essere un numero in una stanza e abbiamo recuperato una sorta di dignità.
18.00 – Torno a essere 411. Sempre più 411.
Non è vero, almeno per me, che in ospedale il senso di vergogna e di imbarazzo viene a mancare. Non riesco a capire come si riesca a rispondere alla domanda “Hai urinato?” fatta da una persona che non hai mai visto prima, con la stessa disinvoltura con la quale risponderesti a “Scusi sa che ore sono?”. QUELLOCHELASALUNGA invece ci teneva ad entrare nei particolari.

Poi è scattato il garino:

QCLSL: Tu le muovi le dita?
IO: No, ma è questione di tempo… (in realtà, credo che non le muoverò mai più).
QCLSL: Io sì.
IO: Bravo, ottimo (si, certo, perché tu le muovi e io no?, che a te l’hanno fatta dopo l’anestesia?).
QCLSL: Lo senti il piede?
IO: Non sento un accidente! (eh, te la sei cercata).
QCLSL: Io comincio a sentirlo.
IO: (ecco usalo per prenderti a calci!) Bene, complimenti!

E così via. Grazie al cielo il sonno è sopraggiunto prima che lo strangolassi, ma presto sarebbe arrivata la rivincita anche se non ne ero ancora consapevole.
Prima però il meritato premio: i biscotti. L’infermiera me li porge come se mi stesse consegnando il Nobel per la letteratura. Anzi come se lo stesse dando a un bambino di quattro anni. Evito di scusarmi per non aver indossato lo smoking e mangio con tranquillità. Sono solo dei biscotti, per dio.

06.00 – Chi diavolo ha detto che bisogna provare la febbre a quest’ora?
Manca il foglio dove segnare la temperatura. L’infermiere mi chiede da quanto sono lì.
“20 giorni, ma l’hanno fregato al terzo…”.
Nemmeno lui apprezza. Se ne va bestemmiando.

11.00 – Finalmente arriva il medico che dopo la visita può mandarci a casa. Finalmente perché nell’attesa mi è toccata pure la disquisizione di QUELLOCHELASALUNGA sugli extracomunitari che fanno casino sotto casa sua e rubano (!?) il lavoro a noi.
Per fortuna mi ha dispensato dall’intervenire.


Il dottore Mi assegna (testuale) la palma del Paziente Ideale e pronostica un mio ritorno in campo nel giro di 20 giorni. Subito dopo cazzia QUELLOCHELASALUNGA (che peraltro si era appena esibito in una dissertazione su come fare lo stretching nel modo migliore, tediandoci per 20 minuti), perché non sapeva fare gli esercizi necessari per la riabilitazione: una semplice contrazione del quadricipite.

Con grande eleganza evito di infierire nonostante il ghigno trionfante, mi vesto saluto e mi accomodo stampellando verso l’uscita.

Alle 12.30 il Grande Utero mi restituisce lo stato di persona.
Mentre mi dirigo alla macchina, penso al fatto che in realtà queste 30 ore non sono nulla confrontate ad altre sofferenze, ad altre regressioni.
Nulla.
Sufficienti però, mentre mi riscalda un tiepido sole, a lasciarmi sottopelle quel qualcosa che invece descrivere non so.
Non riesco.
O forse preferisco di no.