I volti dei profughi a Belgrado, prigionieri tra le frontiere

Il fotografo serbo Igor Čoko ha dato un volto ai profughi bloccati a Belgrado, denunciandone le condizioni inumane

testo di Francesca Rolandi, fotografie di Igor Čoko

Che la rotta balcanica non si fosse interrotta dopo l’accordo con la Turchia del marzo 2016 non era un segreto per nessuno, tanto meno per le autorità dei paesi attraversati dai profughi.

A fronte di un blocco ermetico delle frontiere la cifra di profughi presenti in Serbia non è mai scesa sotto le diverse migliaia. Si tratta di individui le cui possibilità di attraversare i confini legalmente sono minime – l’Ungheria accoglie una ventina di persone al giorno con criteri non chiari – e che aspettano il momento e il luogo per affidarsi ai trafficanti.

Alcuni mesi fa le autorità serbe avevano limitato le attività delle associazioni umanitarie a Belgrado, ufficialmente per far sì che i profughi lasciassero gli accampamenti informali per recarsi nei campi ufficiali, dove peraltro non c’era una capienza per tutti e da dove spesso partirebbero deportazioni illegali.

Secondo molti la mossa del governo mirava semplicemente a farli allontanare dal centro della capitale, rendendoli invisibili. Ma i profughi sono rimasti là, sullo sfondo delle stazioni.

Poi, con le temperature in crollo e il freddo che ha iniziato a mordee oltre i meno 20, si è tornato a parlare della rotta balcanica e le televisioni di tutto il mondo hanno mostrato le immagini dei profughi prostrati, in fila sotto la neve.

In particolare ad essere a rischio sono le persone che sopravvivono all’interno di strutture fatiscenti alle spalle della stazione ferroviaria di Belgrado.

Secondo le stime di MSF, in Serbia si trovano al momento circa 7500 persone in condizioni altamente precarie, insediamenti informali o campi sovraffollati. La Serbia pare non essere più interessata a mostrare un volto umano perché ha capito che questo non fa guadagnare punti davanti all’Europa.

Intanto, nella vicina Bulgaria, si contano i morti per freddo, mentre la Croazia effettua deportazioni forzate verso la confinante Serbia e la Slovenia limita il diritto per cittadini stranieri di richiedere asilo nel paese.

Ma le mobilitazioni possono portare anche a risultati tangibili. Q Code Magazine ne ha parlato con Igor Čoko, fotografo e antropologo, anch’egli un passato di profugo dalla Croazia alle spalle, che con le sue immagini ha contribuito a denunciare al mondo le condizioni in cui i profughi a Belgrado si trovavano.

Quando hai iniziato a seguire la crisi dei profughi e perché ha sentito la necessità di farlo?

Dalla primavera del 2015 quando i profughi, in gran parte provenienti dalla Siria hanno iniziato timidamente a farsi vedere alla stazione dei treni o a quella degli autobus di Belgrado, sono rimasto colpito dalla tragedia dei loro destini. Dal momento che sono io stesso passato attraverso una simile parabola di profugo, ho voluto condividere con loro le emozioni di quell’esperienza, aiutandoli a far sì che la loro storia venisse conosciuta sui media. Inizialmente erano diffidenti, ma quella empatia da entrambe le parti alla fine ha prodotto una particolare vicinanza attraverso la comunanza di esperienze. Nel frattempo la situazione ha subito un’escalation, attraverso Belgrado con la rotta balcanica è passato quasi un milione di profughi fino alla chiusura delle frontiere con l’Ungheria e la Croazia. Si sono dunque trovati di fronte a un ostacolo insormontabile, sono ritornati a Belgrado e qui si sono stabiliti in tre depositi abbandonati in seguito alla costruzione di Belgrado sull’acqua su quella superficie. Finché il tempo era bello e temperato, nessuno ha fatto loro caso. Ma quando è arrivato l’inverno ed è caduta la prima neve, si è manifestata la vera immagine di un inferno e dell’agonia umanitaria con cui queste persone si confrontano.

Che cosa succede al momento, quale è la situazione?

A differenza dei primi giorni, la situazione è parzialmente migliore. Dell’iniziale migliaio abbondante di persone dell’hangar, il loro numero si è oggi ridotto. Dopo l’inizio della campagna mediatica si sono unite anche alcune grandi agenzie e, semplicemente, tutta la questione non ha più potuto essere lasciata a sé stessa. Oggi il cibo viene distribuito regolarmente, sono state portate della toilette chimiche, sono state impiantate delle tende per i più a rischio e per i malati, la gente porta in massa generi di conforto, autonomamente o in coordinamento con alcune minori ONG, sono stati portati degli elementi per riscaldarsi. E tutto ciò fino a una decina di giorni fa era inimmaginabile.

A tuo parere i profughi a Belgrado sono visibili o invisibili? E perché è servito tanto tempo per reagire?

I profughi a Belgrado sono visibili. In pratica hanno libertà di movimento e non vengono infastiditi. In questo caso è servita la neve perché le fotografie – non solo le mie – si diffondessero in maniera virale finché anche i media internazionali reagissero e mettessero i responsabili di fronte alle responsabilità.

 
 
 
 
 
 
 

Le tue fotografie hanno circolato per i social network e i media, sei stato uno dei primi che ha reso testimonianza della situazione nei depositi. Come vedi questo tuo impegno?

Quando sono entrato dentro l’hangar per la prima volta, mi sono sentito al nono girone dell’inferno. Una massa di gente, in gran parte giovani uomini o adolescenti, in 1000 metri quadrati con condizioni catastrofiche di sporcizia. Privi delle comodità più elementari. Si riscaldavano con le traversine dei binari ferroviari smantellati per la costruzione di Belgrado sull’acqua. Si tratta di legno trattato con oli cancerogeni con un forte odore disgustoso. Immaginate, decine di fiamme simili che bruciano no stop 24 al giorno, gente che si fa la doccia all’aperto a – 10, abbandonati a sé stessi. Il governo serbo ha proibito la distribuzione di aiuti umanitari a queste persone perché non sono registrati, il che rappresenta un ricatto – per questo motivo sono abbandonati a sé stessi e all’aiuto di singoli entusiasti. Il che è inaccettabile nel cuore dell’Europa del XXI secolo. Nessuno merita un trattamento simile. Quando l’attivista umanitario Sanjin Pejković è arrivato dalla Svezia a portare aiuti, abbiamo perlustrato l’area alle prime nevicate. Mi sono trovato lì e ho scattato una serie di fotografie poi diventate virali. L’album del profilo Facebook è stato condiviso quasi 1.600 volte e ha costretto sia i singoli che i media internazionali a far decollare la storia e a far decollare gli aiuti. Quelle fotografie sono in un certo senso diventate una – missione.

Come sei entrato a contatto con i profughi e come ti sei guadagnato la loro fiducia?

Con un approccio diretto e umano. Con la comprensione per una situazione che anche io ho personalmente provato sulla mia pelle. Ho parlato con loro. Comprendono le intenzioni, chi è chi e che cosa vuole da loro. Penso di essere riuscito a penetrare nel loro intimo, sforzandomi di rappresentare nel modo più brutale e realistico la profondità dei loro problemi. In quel momento non sei più un fotografo, ma uno di loro che vive quello che loro vivono. La fotografia diventa l’ultima cosa.

Quali sono state le loro reazioni davanti all’obbiettivo?

Anche per quell’approccio diretto, ho l’impressione che si siano dati, che mi abbiano offerto la loro fiducia. E questa è la cosa più importante, va apprezzata. Seguire le loro vite, i loro destini, respirare il fumo insieme a loro, bere il the che vi offrono, riscaldarsi con una coperta come loro. Le fotografie che ho fatto nel modo in cui le ho fatto sono il minimo che avrei potuto fare nella mia missione di aiuto e di trasmissione al mondo della profondità della loro agonia. Oggi con molti di loro sono amico su Facebook e condivido informazioni su dove e come possono trovare il necessario. Ricevo moltissimi ringraziamenti, che mi colpiscono profondamente.

Ci sono state vicende umane che ti hanno particolarmente colpito?

Le storie di quelli che si sono lasciati le proprie vite alle spalle e sono partiti verso un futuro del tutto incerto, le storie dei ragazzini, adolescenti che sono rimasti soli durante il viaggio, delle famiglie disperse delle quali alcuni sono morti, altri sono rimasti in Grecia, i racconti delle persone con i morsi dei cani poliziotto alla frontiera con l’Ungheria e che mi hanno mostrato le loro ferite e sempre la stessa eterna domanda – quando si apriranno le frontiere.