A ognuno la propria storia

Le storie non raccontate dei migranti subsahariani in Tunisia

di Cristina Orsini, tratto da Thrǣdable

Nel 2011, durante i primi sei mesi dell’implosione violenta della Libia, circa 1 milione di persone hanno attraversato il confine tra la Libia e la Tunisia in direzione di quest’ultima. Tra questi, almeno 200.000 non erano libici. Per rispondere a questa situazione di emergenza, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha dunque aperto un campo a Choucha, tra la città di Ben Gardane e il confine libico. Molti dei subsahariani che lavoravano nella Libia di Gheddafi, fuggiti in quei primi giorni di violenza, sono stati rimpatriati con il supporto dell’UNHCR e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM); e circa 3.000 hanno beneficiato del programma di reinsediamento dell’UNHCR. Nel 2013, l’UNHCR ha quindi “spostato i suoi servizi nelle zone urbane”, chiudendo il campo di Choucha. Tuttavia, la Libia ha continuato a precipitare nel caos e libici e non a cercare sicurezza al di là del confine.

Per loro, la Tunisia, generalmente considerata come un paese di emigrazione e di transito verso l’Europa, è un paese di immigrazione e rifugio. Ma dato che i fondi e l’attenzione internazionale hanno migrato verso altre crisi, i nuovi arrivati trovano pochi pronti a sostenerli e a raccontare le loro storie. Eccone alcune. Queste storie, per quanto possano essere uniche, raccontano la diversità delle migrazioni, anche all’interno di un piccolo paese come la Tunisia – quella diversità che va facilmente persa nelle narrazioni semplificate di “flussi” migratori.

 

Aicha, Edla, Mayfa* – Le donne del deserto

Aicha, dal nord del Mali; Edla, dalla Guinea-Conakry; e Mayfa, dal Congo-Brazzaville, vivono insieme ad altre cinque donne in un appartamento gestito dalla Mezzaluna Rossa tunisina nella città di Medenine, nel desertico sud della Tunisia. Sembrano sorelle di una grande famiglia, ma si sono incontrate solo qualche mesa fa, sulla strada dalla Libia alla Tunisia. Aicha ha attraversato il deserto in un camion per raggiungere la Libia e poi l’Europa, ma ha finito per fuggire in Tunisia. Non ha avuto accesso ad internet per così tanto tempo che si è dimenticata la password del suo account di Facebook. Edla ama cucinare per le altre, non solo perché riesce a dare un gusto delizioso a qualsiasi cosa, ma anche perché la cucina è il suo antidoto per smettere di pensare ai suoi problemi. Mayfa ha lasciato una figlia a Brazzaville e un fratello in Libia. “A ciascuno la propria storia”, dice con un sorriso spezzato.

Aicha, Edla, e Mayfa sono solo alcune delle tante persone che sono rimaste intrappolate nelle intricate reti di traffico di esseri umani che prosperano nell’illegalità libica. Tuttavia, come molti altri, le otto donne nell’appartamento di Medenine hanno finalmente deciso di non tentare la traversata del Mediterraneo.

Alcuni risolvono di non voler scommettere con il mare. Altri hanno esperienze talmente tragiche in Libia che decidono semplicemente di fuggire. Infatti, il deserto libico rappresenta spesso la parte più pericolosa del viaggio di un migrante. Ciò vuol dire che alcune persone raggiungono la Tunisia dal deserto per poi transitare in Libia e attraversare il Mediterraneo; mentre altre vanno o tornano dalla Libia in Tunisia, per fuggire a instabilità e la violenza.

Aicha, Edla, e Mayfa sono arrivate ​​nella desolazione che era una volta il campo di Choucha, e sono state detenute per alcuni giorni nelle vicinanze. Si sono poi trasferite a Zarzis, sulla costa sud-orientale della Tunisia, con l’aiuto della Mezzaluna Rossa, uno dei pochi punti di riferimento per migranti e richiedenti asilo in Tunisia. Ma a Zarzis non si sentivano tranquille: “ogni volta che andavamo al mercato qualcuno chiamava la polizia; era come avere una scorta personale” si lamenta Edla, indicando la sua pelle scura, “sono razzisti”.

Ogni volta che una macchina si avvicina alla casa dove ora vivono a Medenine, una testa fa capolino dal balcone in un misto di paura della polizia e speranza che qualcuno faccia loro visita rompendo la loro vuota routine quotidiana. Quando scorgono un volto familiare, si armano di grandi sorrisi per accogliere i visitatori con un’ondata di risate contagiose. E’ quando la Libia è evocata che l’atmosfera gioiosa che riescono a creare in uno spazio così angusto si infrange, come un sottile strato di vetro colpito da un tornado. Non hanno parole per descrivere ciò che hanno visto o vissuto, e, in silenzio, si limitano a fissare lo sguardo nel vuoto dell’orizzonte dallo stesso balcone. Nei loro occhi non c’è traccia di quell’espressione gioiosa che li rendeva così vivaci pochi secondi prima. Solo quando vengono interrogate sulle loro intenzioni per il futuro, sembra che i loro occhi ricomincino a mettere a fuoco, come se cercassero la risposta nel paesaggio di fronte a loro: una strada, un edificio in cemento abbandonato incompiuto, e un terreno piatto e sabbioso che si estende a perdita d’occhio.

“Non possiamo restare qui” mormora Mayfa, continuando a fissare l’orizzonte vuoto.

A volte, le donne come Mayfa, Edla e Aicha riescono a trovare un lavoro nell’economia informale, spesso come domestiche in famiglie benestanti. Questo può però aprire la porta allo sfruttamento. Infatti, non mancano i casi di maltrattamento di lavoratrici domestiche provenienti dall’Africa sub-sahariana, alle quali è a volte perfino negata la possibilità di lasciare la casa in cui lavorano, in condizioni che sono troppo simili alla schiavitù. Nel Luglio del 2016, la Tunisia ha passato una legge contro la tratta di persone, che, tra altre cose, dà la possibilità alle vittime di sfruttamento di accedere alla giustizia. Allo stesso tempo, per donne come Aicha, Edla e Mayfa l’economia informale, con tutti i suoi rischi, rimane l’unica opzione. “La legge tunisina non è ancora aggiornata per questo tipo di problemi. Per avere un permesso di lavoro si avrebbe bisogno di dimostrare che tale lavoro non può essere effettuato da un tunisino, che è praticamente impossibile”, spiega il dottor Mongi Slim, rappresentante della Mezzaluna Rossa nel governatorato di Medenine. Questo riflette un vuoto ben più profondo nel quadro giuridico per la protezione di migranti e richiedenti asilo in Tunisia, che, secondo il dottor Slim, “non è ancora all’altezza della situazione. Ci stanno lavorando, ma ci sono molti problemi, e non è una priorità per il governo”.

 

Suleyman* – Un cervello in fuga

Suleyman è un avvocato e scrittore sudanese che è entrato in un ciclo di fuga da persecuzioni e conflitti per la pubblicazione di romanzi che criticavano il governo sudanese e il suo sistema politico islamista. Dopo aver studiato e lavorato come avvocato in Siria, si è trasferito in Egitto per ricevere cure mediche specialistiche a seguito di un incidente stradale potenzialmente letale avuto in Sudan. Avendo ricevute minacce da agenti sudanesi mentre era in ospedale in Egitto, è quindi fuggito in Libia con la sua famiglia nel 2009. Allo scoppio del conflitto in Libia, si è nuovamente rifugiato in Tunisia.

I suoi quattro figli, ognuno dei quali è nato in uno dei paesi in cui Suleyman ha trovato una casa temporanea, sono la testimonianza vivente di una ricerca di protezione apparentemente infinita.

In Tunisia, la famiglia e i figli di Suleyman hanno ricevuto lo status di rifugiati quando l’UNHCR era ancora attivo a Choucha. Ma quando i colloqui per l’asilo hanno avuto luogo, lui era in viaggio per la presentazione di uno dei suoi libri. La famiglia si è ora stabilita a Ben Gardane, una cittadina a meno di 40 km dal confine con la Libia. Qui, la sua prima preoccupazione è fare in modo che i suoi figli possano andare a scuola per diventare cittadini consapevoli come lui stesso. Allo stesso tempo, si preoccupa di non essere in grado di provvedere per la sua famiglia in un luogo in cui il lavoro è scarso, soprattutto per un intellettuale con lesioni a lungo termine che gli impediscono di intraprendere qualsiasi lavoro pesante.

Molte delle famiglie che Suleyman ha incontrato durante il suo tempo a Choucha hanno tentato la traversata del Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Alcuni hanno raccolto il denaro necessario mendicando con i loro figli per le strade del sud della Tunisia. Suleyman critica fermamente questa scelta perchè crede che far mendicare i bambini possa incidere sulla loro autostima e la comprensione di sé dalla più tenera età. Lui non ha nessuna intenzione di tentare una traversata verso l’Europa e continua ad ignorare le voci dei trafficanti che cercano di vendergliela: “Non credo di avere il diritto di imporre ai miei figli una scelta che può essere una questione di vita o di morte, mentre loro non hanno alcun potere di opporsi”.

 

Mahmoud – Il figlio africano della Libia

Mahmoud, 22 anni, è nato in Libia da genitori guineani, come molti altri figli e figlie di famiglie sub-sahariane che si erano stabilite nella Libia di Gheddafi per lavorare. Si è trasferito in Tunisia nel 2011 per frequentare il liceo, ritrovandosi ben presto incapace di tornare nel suo paese natale, che ha visitato l’ultima volta nel 2013. Allora, aveva deciso di andare in vacanza a Tripoli per rendere visita alla sua famiglia. “Non ho riconosciuto il paese in cui sono cresciuto”, racconta, “c’erano armi in vendita in mezzo alla strada […] e continuavo a sentire che i sub-sahariani venivano aggrediti senza un vero motivo”. Mahmoud è stato arrestato nel centro di Tripoli “dall’esercito regolare” e imprigionato in quello che era una volta uno zoo, trascorrendo una notte in “gabbia” prima di essere rilasciato grazie all’intervento dell’ambasciata guineana. Certamente, lui è stato uno dei più fortunati. “C’erano due auto pronte per portare nel deserto chi non aveva il passaporto; e a quelli senza permesso di soggiorno è stato chiesto di pagare 2000-3000 Dinari [più di 1000 euro] se volevano essere liberati”.

La maggior parte degli amici con cui Mahmoud è cresciuto hanno lasciato la Libia. Alcuni sono tornati nei rispettivi paesi d’origine con le loro famiglie; altri hanno rischiato il viaggio verso l’Europa.

Per Mahmoud, vivere in Tunisia senza essere in grado di tornare in Libia significa essere in un limbo di auto-comprensione. Lui e molti altri nati in Libia da famiglie sub-sahariane non sono considerati libici dai tunisini, ma hanno pochissimi legami con il paese di origine dei loro genitori. A volte non ne conoscono la lingua o non ci sono mai stati. Alcuni potrebbero dire loro di “tornare nei loro paesi” – ma come si può tornare in un paese dove non si ha mai abitato? Mahmoud ha trovato una risposta costruttiva a questa crisi personale. Si è impegnato attivamente nella dinamica società civile tunisina, dove si batte per migliorare i diritti degli altri sub-sahariani in Tunisia, dove molti sono vittime di discriminazione e sfruttamento.

*Questi nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati.