Varichina

L’uomo che ha celebrato ogni giorno il gay pride da solo

di Andrea Colasuonno

Se dovessi scegliere una scena da cui partire per parlare di “Varichina”, il biopic in questi giorni nelle sale dedicato alla vita di Lorenzo De Santis, personaggio realmente vissuto nella Bari degli anni ’70, questa sarebbe sicuramente quella dell’album di nozze. Ci sono le vicine di casa di Varichina che ricordano il loro rapporto con lui. Spiegano come fossero diventate la sua famiglia acquisita, tanto da averlo invitato al matrimonio di una loro. Mentre parlano sfogliano l’album di nozze e, trovata una foto in particolare, colei che all’epoca era la sposa indica col dito “ecco sta qui”. Il dito puntato sul cartoncino della pagina dell’album, fuori dalla foto, poi aggiunge “mio padre ha voluto tagliarlo, ma era qui e sorrideva”.

È una sequenza che riesce a contenere la complessità del personaggio in questione: a Varichina quasi tutti volevano bene, eppure quasi per tutti era inaccettabile.

Era nato nel 1938, sua mamma produceva detersivi, lui da piccolo li vendeva in giro per la città, di qui il soprannome Varichina. Presto si accorse della sua omosessualità, della sua stravaganza invece non si accorse mai, la visse e basta. Lo spiega nel film un suo amico dell’epoca intervistato. “Non è che lui accettava la sua diversità, non la capiva neanche, era qualcosa d’inconscio: lui era così e basta”.
Per il resto della città, invece, era lo spettacolo più assurdo a cui potesse quotidianamente assistere. Varichina portava i boccoli biodi e camminava con l’incedere da sciantosa.

Aveva un pancione prominente e villoso, sempre in bella mostra, grazie a jeans portati a vita bassa e camicette dai motivi floreali legate ad altezza seno.

Casa sua aveva tutte le pareti dipinte di rosa e tutte le tendine necessariamente dotate di merletti. Ripudiato molto presto dalla famiglia, per mantenersi faceva il parcheggiatore abusivo nel quartiere Libertà e la sera si prostituiva. Il suo posto era sotto un palo della segnaletica stradale in via Nicolai che lui, neanche a dirlo, usava da supporto per grottesche esibizioni di pole dance. Tutto questo a Bari, negli anni ’70, quando il sesso era un tabù e gli altri omosessuali si nascondevano: è così che poi si entra nell’immaginario collettivo di una città.

Tutt’oggi se andate Bari, fermate una persona qualunque per strada e gli dite “tutt’do…” lasciando in sospeso la frase, quello vi risponderà “avita venì”. È praticamente certo. “Tutt’do avita venì”, significa “tutti qui dovete venire”, era la frase preferita di Varichina, il suo motto. La diceva, anzi la urlava, dandosi due colpetti sul sedere con la mano, rivolto a chi per strada non mancava di deriderlo o insultarlo. Una specie di mantra con il quale riusciva a mandar giù i momenti di scherno, senza dover uscire dal suo personaggio.

Sì perché per lui, a dispetto di ciò che portava disegnato sulle camice, non furono tutte e rose fiori. Si può immaginare. La sua vita fu piena di oltraggi, scherzi al limite della legalità, pestaggi, emarginazione, amori cercati e non ricambiati.

Di contro, tutti quelli che l’hanno conosciuto davvero, parlano in fondo di una persona fragile, leale e dalla sensibilità non comune. Per intenderci Varichina, se le incontrava per strada, non salutava le sue vicine, ossia la sua famiglia acquisita, per non metterle in imbarazzo agli occhi degli altri.
Aver fatto venir fuori questo aspetto del personaggio è il merito più grande che personalmente riconosco all’attore protagonista, il bravissimo Totò Onnis, e agli autori e registi Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo. Larga parte dei dialoghi del film sono in dialetto e molti dei personaggi sono sguaiati e laidi. Le parolacce e le imprecazioni di ogni sorta non si contano.

Eppure, nonostante la scelta di una cifra truce e volgare, ciò che alla fine rimane è la poeticità di fondo della storia. In quasi un’ora di film mai un cedimento a cliché alcuno, evitate tutte le trappole retoriche alle quali pure il soggetto trattato si prestava. Insomma un gran bel lavoro.

Un lavoro dedicato a un personaggio che a ben guardare va al di là della sua caratterizzazione provinciale e la cui visione, per questo motivo, mi sento di consigliere a tutti, baresi e non.
Dal film in definitiva se ne trae un insegnamento, se così possiamo chiamarlo, universale. Quale? Quello che ci dice che la libertà, nella sua forma più radicale, è sostanzialmente solitudine. Una forma di libertà per questo non comune, che è stato bene celebrare, una volta di più.