Colpevoli di voler sopravvivere

Dalla Sicilia le storie dei migranti accusati di essere degli scafisti, che in realtà sono delle doppie vittime: dei trafficanti che li costringono al timone e di un sistema che li rende invisibili

di Cristina Orsini,
tratto da THRǢDABLE

“Quando mi hanno rilasciato dal carcere, il cancello era semplicemente aperto. E mi hanno detto di andarmene. Non ho nessuno in Italia. Non avevo un euro. Non sapevo dove fossi.” Emmanuel* sorride senza gioia, rivelando lo spazio vuoto di un dente mancante. È stato arrestato al suo arrivo al porto di Pozzallo in Sicilia, uno dei principali punti di approdo per migranti e richiedenti asilo. Non sapeva quale crimine avesse commesso fino a tre giorni dopo la sua incarcerazione, quando è apparso di fronte al giudice per la prima volta. Lì ha scoperto di essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Emmanuel era un soldato dell’esercito nigeriano. In Nigeria, “viveva bene”, dice, ma ha deciso di disertare  perché i soldati venivano inviati a combattere contro Boko Haram come animali al macello. Ha quindi intrapreso il viaggio verso l’Europa, con l’obiettivo di richiedere la protezione internazionale.

Ma appena prima che salisse sulla barca che doveva portarlo in salvo, i trafficanti libici (gruppi armati, gang criminali e perfino agenti statali che controllano le rotte del traffico di esseri umani verso l’Italia) gli hanno detto che avrebbe dovuto occuparsi della bussola che avrebbe permesso alla barca di navigare nella direzione giusta.

Sapevano che era un soldato e volevano sfruttarne le  capacità di adattamento e sopravvivenza. Quando si è rifiutato, l’hanno picchiato. È così che ha perso il dente che manca dal suo sorriso e che tiene sempre al sicuro nella sua borsa. “In Libia non c’è nessun governo. Non puoi dire niente. Non avevo scelta. Era meglio correre il rischio [di tenere la bussola] che morire nelle mani dei libici” spiega, come se si stesse ancora difendendo in tribunale.

Emmanuel non è l’unico ad essere stato arrestato in Italia per essere stato costretto a dirigere i suoi compagni di viaggio verso la terra promessa , avendo morte o tortura come uniche alternative. Secondo Paola Ottaviano, di Borderline Sicilia, casi come il suo sono in aumento. Capita spesso che, all’arrivo, le autorità arrestino alcune persone identificate come scafisti, spesso dando priorità alla raccolta di testimonianze prima di assistere chi approda in stato di shock e in povere condizioni di salute.

“Quello a cui stiamo assistendo negli ultimi tempi è un aumento di persone che ci raccontano di essere state costrette [a guidare la barca o a leggere la bussola] dai trafficanti in Libia. Non si tratta di persone che volontariamente, come accadeva in passato, accettavano di guidare per avere uno sconto sul viaggio o per poter portare un parente”, spiega Paola Ottaviano. Infatti, Emmanuel ci dice: “quando sono apparso davanti al giudice, gli ho detto la verità. Sì, l’ho fatto [tenere la bussola], ma sotto costrizione. Ho pagato per la traversata”.

Il suo dente mancante può essere una testimonianza della sua innocenza, come la ferita di proiettile nella gamba del migrante che ha guidato la stessa barca, al quale i miliziani libici hanno sparato dopo il suo rifiuto.

Tuttavia, a volte ci si può ritenere fortunati di essere solo stati feriti. Alcuni hanno perso membri della propria famiglia. David*, per esempio, è stato costretto a tenere la bussola dopo essere stato separato dalla sua fidanzata, diciannovenne e incinta, con la promessa che sarebbe stata mandata su un’altra barca se lui avesse trovato la rotta per l’Italia. David ha trovato la rotta, ma non la sua ragazza. Non ne ha notizie da sei mesi. Ed è stato arrestato proprio come Emmanuel.

L’ingiustizia cui persone come Emmanuel e David sono soggette non si limita all’ essere arrestati per un crimine che non hanno scelto di commettere. Quando sono in carcere, faticano a capire cosa gli sta accadendo, perché le informazioni (quando non si tratta di disinformazione) sono fornite solo in italiano, una lingua che risulta inevitabilmente incomprensibile per chi ha raggiunto l’Italia da pochi giorni. “Quando ero in prigione, ho firmato molti documenti senza sapere cosa stessi firmando. Erano tutti scritti in italiano. Non capisco l’italiano; ma dovevo firmare”, dice Emmanuel. Come spiega Paola Ottaviano, ai presunti scafisti che sono arrestati gli avvocati spesso consigliano di patteggiare e dichiararsi quindi colpevoli con la prospettiva di un rilascio. Chi patteggia però spesso non capisce le conseguenze di una condanna a seguito di patteggiamento. Essere condannati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina vuol dire ricevere un decreto di espulsione che esclude qualsiasi possibilità di regolarizzare la propria situazione sul territorio italiano e di richiedere la protezione internazionale. Allo stesso tempo, la condanna è anche ostativa all’ammissibilità ai programmi di rimpatrio assistito offerti dalle organizzazioni internazionali.

Senza soldi e, spesso, senza documenti, queste persone non hanno altra scelta che rimanere in Italia, intrappolati in una situazione d’illegalità e d’invisibilità dalla quale non vedono via d’uscita.

È così che, dopo un mese e tre giorni, Emmanuel è stato rilasciato dal carcere, davanti a un cancello aperto che non porta da nessuna parte. Mentre era in prigione, aveva capito dall’avvocato d’ufficio che sarebbe stato portato in un centro d’accoglienza. Pensava che il caso contro di lui fosse finito; che sarebbe stato finalmente in grado di richiedere la protezione internazionale. Invece, si è ritrovato a dormire su una panchina in un parco vicino alla stazione dei pullman della città di Ragusa, sopravvivendo di quello che qualche “buon samaritano” gli offriva.

Oggi Emmanuel vive in un centro di accoglienza temporaneo con altre sette persone. Un progetto nato dalla collaborazione di Borderline Sicilia, Oxfam Italia e la Diaconia Valdese,  dedicato a chi rimane escluso dal sistema di accoglienza italiano, l’ha allontanato dalla strada, gli ha dato un tetto e informazioni adeguate. Tutti i suoi coinquilini sono intrappolati nella stessa  situazione d’invisibilità; molti dopo una condanna come quella di Emmanuel, altri dopo esser stati rifiutati all’arrivo senza veri motivi o per aver perso i diritti acquisiti come minori il giorno del loro diciottesimo compleanno.

“Non posso tornare nel mio paese. Sono un soldato che è scappato dalla prima linea della guerra. Tornare nel mio paese è come firmare una condanna a morte. Sono venuto in Italia per richiedere la protezione internazionale, ma adesso è tutto sottosopra” conclude Emmanuel, con un’espressione di rassegnazione temporanea.

Quando contiamo le migliaia di migranti che muoiono tutti gli anni senza nome né dignità inghiottiti dal mare, dovremmo quindi aggiungere quelli come Emmanuel, uomini e donne a cui è stato rubato il diritto di esistere come individui con un nome e un volto da qualche parte nel mondo. Sono sopravvissuti al mare, ma sono stati inghiottiti da un sistema in cui l’immigrazione è ridotta a qualcosa da combattere come traffico di essere umani o come minaccia per la sicurezza; a numeri decontestualizzati per vincere supporto politico; ad una fonte di manodopera facilmente sfruttabile dalle organizzazioni criminali che le autorità dovrebbero combattere.

In questo sistema, il discorso politico e mediatico e la realtà si allontanano sempre di più.

Da un lato, il governo italiano e l’Europa annunciano più espulsioni e un approccio più duro contro il traffico di essere umani; che include un accordo irrealistico con la Libia. Dall’altro (quello della realtà), chi viene espulso rimane spesso in Italia, diventando semplicemente invisibile. E gli arresti di molti cosiddetti “scafisti” non danno nessuna contributo allo smantellamento delle reti dei trafficanti, di cui non sono altro che vittime – colpevoli solo di voler sopravvivere.

 

*I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati.