Why am I here? – Voci dalle prigioni libiche 01

Hafiz, Niger

di Francesca Mannocchi

“Fatemi uscire, portatemi all’aria aperta. Solo cinque minuti.”

Hafiz è nato nel 1991 in Niger.
Ha il viso segnato dalla malattia, scavato dalla fame.
Ha il respiro affannato, e cammina a stento.
Hafiz è uno dei centosessanta migranti reclusi nel centro di detenzione di Al Saladdin, alla periferia di Tripoli.
Al Saladdin è uno dei trentacinque centri di detenzione ufficiali del paese, gestiti dall’Agenzia anti-immigrazione clandestina del Ministero dell’Interno libico.

L’edificio dove oggi c’è la prigione di Al Saladdin è stato per anni una sala ricevimenti per matrimoni.

A ricordarlo le insegne dorate al suo interno.
Le tracce di rosso vivo alle pareti.
Quello che resta di un fregio colorato appeso ad una lampada, pieno di polvere, dimenticato chissà quando, da chissà chi.

Quelle pareti, che sono state testimoni di promesse di un futuro felice, oggi raccolgono la disperazione di decine di uomini arrivati in Libia in cerca di fuga, incastrati nel limbo di uno stato che non esiste più.

Anche Hafiz avrebbe desiderato un futuro migliore.

Per questo, a ventiquattro anni, ha pagato un trafficante, ha attraversato il deserto, ha camminato per giorni per arrivare in Libia, lavorare e pagare il ‘biglietto’ che avrebbe potuto migliorare la sua vita.
Ma una volta in Libia, Hafiz è diventato l’ennesimo ostaggio del caos in cui è avvolto il paese.
Hafiz è stato arrestato dalla polizia libica sei mesi fa, da allora la sua vita è il trascorrere lentissimo delle ore su un materasso sporco (uno delle centinaia) steso all’angolo dello stanzone di Al Saladdin.Poca luce, sei bagni per tutti, l’aria stagnante, un portone di ferro chiuso con il lucchetto che non viene aperto se non per consegnare il pasto quotidiano.

Un solo soldato entra a sfamare centossessanta persone, nessuna delle quali esce mai a respirare aria pulita, a camminare al sole.

I raggi del sole entrano nello stanzone di Al Saladdin da finestre piccolissime alle estremità delle pareti. I raggi a mezzogiorno sono lame sui profili dei pochi migranti seduti sui secchi spediti delle organizzazioni umanitarie. Ognuno il suo, al bordo del proprio materasso sporco.
Sono seduti a cercare la luce.

Al Saladdin è un silenzio ininterrotto. Questo lo rende diverso da altri centri di detenzione, la sensazione che i centosessanta migranti non abbiano perso solo il loro sogno. Ma abbiano perso anche la rabbia.
Al Saladdin è la rassegnazione della Libia, oggi.

Hafiz ha un foglio di via timbrato dalle autorità libiche e dall’ambasciata del Niger di base a Tripoli.
Mohammed è un suo amico.
Racconta che poche settimane fa un funzionario dell’ambasciata del Niger sia andato a Al Saladdin per valutare chi avrebbe potuto beneficiare del programma di rimpatrio dalla Libia e ha chiesto a Hafiz 1.000 dinari libici.

Nessuno ha soldi nei centri di detenzione, i soldi, i telefoni, i pochi oggetti personali vengono sequestrati al momento dell’arresto.

Mohammed ha chiesto il telefono a una delle guardie carcerarie.
Ha chiamato tutti i giovani del Niger che conosceva a Tripoli “dovevamo aiutare Hafiz ad andare via” dice.
Ma quei 1.000 dinari libici erano una truffa.
Dopo quella visita il funzionario è sparito e con lui la speranza di tornare a casa.
Così Hafiz oggi è un cittadino con un foglio di via, tecnicamente libero, potrebbe tornare indietro, eppure è rinchiuso in una prigione libica.

I suoi compagni di prigionia si danno il cambio accanto a lui.
“Potrebbe morire da un momento all’altro” dicono.

Hafiz ha la polmonite, è grave, per questo non mangia, non respira e non sta in piedi.
Ma nessun dottore arriva al centro di detenzione di Al Saladdin.
Gli ospedali pubblici lo rifiutano. Gli ospedali pubblici i migranti non li vogliono.
Le cliniche private vogliono essere pagate, 200 dinari al giorno, più le medicine.
Il sorvegliante del centro di detenzione ha provato a chiamare tutti i numeri di organizzazioni umanitarie che aveva, ma non è arrivato nessuno.
La Libia è troppo pericolosa anche per gli operatori umanitari.

Così un giorno ha pagato lui l’ambulanza e la degenza di Hafiz. Dice che l’ha fatto per la memoria di suo padre, che ne sarebbe stato orgoglioso.
Dice che suo padre non avrebbe voluto ricordare una Libia così crudele.

 

L’immagine in apertura di alcuni migranti africani in Libia è un’immagine di European Commission DG ECHO  tratta da Flickr in CC.