Bulimia

un racconto di
Gaia Grassi

 

Era bastato che lui glielo scrivesse ed era partito tutto. “Ho mangiato 500 grammi di bistecca”.

Lei era sdraiata sul divano, sotto la coperta blu che aveva rubato in aereo in uno dei suoi ultimi viaggi in Asia (a volte si chiedeva se fosse o meno cleptomane: rubava sciocchezze solo per il gusto di farlo, per portarsi a casa un po’ del rischio vissuto). Non aveva voglia di alzarsi: stava guardando stupidi film natalizi. Con un sacco di luci, buoni sentimenti e colonne sonore che spaccano il cuore. …Chi può resistere a “Runaway Train” dei Soul Asylum e a quel video straziante con la carrellata di facce di dispersi (o spariti volontariamente, chi può dirlo…) senza commuoversi?!

Nel frattempo succhiava pigramente spicchi di mandarini profumatissimi, sgranocchiava finocchi crudi e faceva il filo a una torta di ricotta e castagne avanzata da una cena di qualche giorno prima. Adorava la torta di castagne vecchia di qualche giorno: i marron glacé diventavano ancora più duri e la ricotta raggiungeva quella punta di acidulo perfetta per contrastare il troppo-dolce. Ma non l’aveva ancora mangiata. Non aveva appetito. Piluccava quelle cose perché sapeva di doverlo fare, altrimenti si sarebbe svegliata affamata nel cuore della notte, visto che non aveva nemmeno pranzato.

Però lui lo aveva fatto. Le aveva scritto: “Ho mangiato 500 grammi di bistecca”. E tutto era partito.

Una fame atavica si era impossessata di lei. All’improvviso. Come una furia. Si era alzata di scatto dal divano e si era precipitata al frigo. Era semivuoto. O semipieno. Dipendeva dai punti di vista. C’erano un sacco di cose necessarie per quella buffa dieta da canarino che aveva iniziato da un po’ (quindi era mezzo pieno): semi di girasole, semi di lino, sesamo, mandorle, miso, tamari, tofu, soia, carote, tempeh, limoni, prugne umeboshi e minestrone di legumi avanzato.

Ma nulla di stuzzicante (quindi era mezzo vuoto). Poi c’erano dei residuati bellici: capperi sotto sale comprati in Sicilia qualche estate prima, fondi di senape di Digione, tre sottilette scadute, olive, acciughe, burro sopravvissuto all’ultimo risotto cucinato. E una mezza bottiglia di prosecco. Non aveva tempo di cucinare: doveva mangiare subito. Ma qualcosa di caldo. Quindi aveva allungato la mano e afferrato il minestrone.

L’aveva messo sul fuoco, ma non aveva resistito: si era piegata sul fornello e aveva iniziato a mangiare il passato direttamente dalla pentola. A ogni cucchiaiata poteva testare la perfetta miscela di caldo e freddo. No, non era tiepido: era un vortice di caldo e freddo. La lingua poteva riconoscere chiaramente e percorrere la strada del minestrone ancora freddo che stava per mischiarsi a quello già riscaldato.

Una volta pronto, aveva versato il poco che restava in un piatto di coccio rubato (ancora, sì) a una sagra in Salento dieci anni prima. Tre cucchiai, solo tre cucchiai. Il piatto così vuoto alla vista non era riuscito a calmare la fame, quindi era tornata al frigo. Aveva preso la bottiglia di prosecco, una sottiletta e la torta di castagne.

Le sottilette erano scadute: non l’aveva dimenticato. Ma solo da cinque giorni… E poi voleva mangiarle lo stesso: erano le sottilette di Tegola, il cane con cui aveva convissuto, morto anni prima (la marca era la stessa, non le sottilette, eh), e in quei giorni le mancava un sacco. Spesso le mancava e, quando succedeva, comprava le sue sottilette, che poi lasciava scadere in frigo perché a lei non piacevano.

Le mancava soprattutto quando nevicava, perché ogni volta che iniziavano a cadere fiocchi abbastanza grossi, qualsiasi ora fosse, le metteva il guinzaglio e la portava a fare un giro sulla Martesana. Quella cagnetta adorava rotolarsi nella neve. Lei in realtà non la amava particolarmente. Cioè, non è che non amasse gli animali: le piacevano in casa altrui.

Tollerava solo la convivenza con i pesci, come la sua Nami. Tegola poi era molto invadente: le stava sempre addosso, puzzava come una fogna, le mordicchiava tutti i vestiti che trovava a portata di muso (compresa la sua gonna bordeaux di Prada, mannaggia). E poi le aveva tutte, crisi epilettiche incluse. Ogni giorno prendeva una pastiglia di Gardenale e lei, per non fargliela sputare, l’avvolgeva in una sottiletta, appunto.

Ecco, voleva rivivere proprio quel gesto, quella sensazione di accudimento mista a fastidio, mista a soddisfazione per essere riuscita a fregare un vecchio e furbissimo cane con un trucco così banale. E allora aveva preso una lenticchia avanzata dal minestrone, l’aveva arrotolata nella sottiletta e se l’era mangiata in un sol boccone, proprio come il lupo nelle favole.

Iniziava a sentirsi sazia ora. Ma non era ancora abbastanza. Il confronto con i 500 grammi di bistecca continuava a essere troppo squilibrato. E allora era arrivato il turno della torta. Aveva dimenticato il cucchiaino, ma non aveva voglia di alzarsi: l’aveva mangiata con le mani. Affondava le dita nella ricotta, frugava a occhi chiusi – per concentrarsi meglio – alla ricerca di un pezzo di marron glacé e, quando lo trovava, se lo infilava in bocca, sotto la lingua, e aspettava che si sciogliesse.

Così, velocemente. Alternando la foga della ricerca con le dita nella ricotta alla flemma dell’attesa della dissolvenza del marron glacé.

Poi, stremata, si era addormentata. All’istante, senza preavviso. Tra le labbra un ciuffo di capelli, da cui stava succhiando via un residuo di ricotta. Perché quella sera nulla doveva essere avanzato. Tutto doveva finire.