L’ultimo dei pupari

Intervista a Mimmo Cuticchio, erede della tradizione dei “cunti” siciliani

di Giusi Affronti
foto di Valentino Bellini

«Chi ti n’ha fari tu da televisioni. Tu c’hai u tiatru!».

Cresce a pane, olive e teatro Mimmo Cuticchio, figlio del puparo Giacomo e allievo di Peppino Celano, ultimo “cuntista” siciliano della tradizione ottocentesca: il suo è un universo fantastico attorno a cui gravitano opranti, sarti, conciatori, sbalzatori, intagliatori, stagnini e pittori.
Cantastorie, attore e regista teatrale, fra tradizione e sperimentazione, è il Maestro di Palermo dell’Opera dei Pupi, oggi Patrimonio orale e immateriale dell’umanità UNESCO. Nasce a metà del XIX secolo, quando la danza con le spade Taratatà di Casteltermini e il racconto orale si trasferiscono dal rito contadino e dalle piazze al teatro insieme al repertorio dell’epopea medievale cavalleresca della Chanson de Geste. È un teatro antico, quello di Mimmo Cuticchio, che conserva le sue radici trasformandosi in avanguardia fino a recitare, in carne e ossa oltre il boccascena insieme alle sue marionette, storie di bruciante poesia e attualità lontane dalle tradizionali battaglie carolingie tra Cristiani e Saraceni. Il Maestro, attraverso il suo teatro popolare, racconta la storia contemporanea, di guerre sbagliate e di amore fra i popoli. E lo fa, per esempio, “manovrando” la parabola di San Francesco che incontra il Sultano a Damiata, in Egitto, per fermare la violenza della quinta crociata: ad aprire lo spettacolo, su un telo bianco nei teatri del mondo, è la proiezione di filmati d’archivio di bombardamenti su Baghdad. L’hic et nunc, dunque, come fra le pagine di un giornale, in un lungometraggio al cinema o in televisione.

Quella dell’Opera dei Pupi è la storia di un uomo, di una famiglia – la sua – e di una terra, la Sicilia. Un ritratto, a parole, di suo padre, Giacomo Cuticchio.
«La storia di una famiglia, è vero, perché tradizionalmente i sacrifici si richiedono sempre dentro casa e mai fuori …
Da bambino abitavo in Piazza Rivoluzione a Palermo. Vicino a noi, viveva una famiglia di pupari e opranti, quella di Don Gaetano Greco. I mestieri, a quel tempo, si tramandavano da padre in figlio, da maestro ad allievo, di generazione in generazione: mio padre è stato l’ultimo allievo di Achille, Alessandro ed Ermenegildo Greco e da loro ha imparato la manovra, la messinscena e il repertorio epico–cavalleresco.
Giacomo Cuticchio ha sfamato una famiglia di sette figli come lavoratore dello spettacolo con il suo teatrino itinerante in giro per la Sicilia Occidentale. Nei paesi di mare, ad esempio, andavamo in inverno. In montagna o in campagna, arrivavamo dopo la semina o il raccolto. Non esistevano ancora il cinematografo né la televisione».

Dove finisce l’artigianato delle maestranze e dove inizia la magia dello spettacolo nell’Opera dei Pupi?
«Nel mondo antico e nel Medioevo l’artista era artigiano. L’artigianato, la tecnica, consiste nella preparazione della tela per un pittore, nella realizzazione del calco in scultura o nella fabbricazione di un gioiello per un orafo. Allo stesso modo, la maestranza del puparo, ovvero colui che costruisce i pupi, è necessaria quanto l’articolazione della macchina scenica e dei suoi personaggi ad opera dell’oprante. Io interpreto entrambe le figure: puparo e oprante.
In passato un teatrino, per poter mettere in scena gli spettacoli giornalmente, lavorava con almeno trecento pupi e circa duecento teste di ricambio; eravamo teatranti nomadi che si spostavano con fatica a bordo di un vecchio torpedone. Oggi possediamo più di mille marionette, alcune delle quali risalgono a centocinquanta anni fa: fatte di alpacca, ottone e rame! Da bambino, lucidavo le armature con acqua, sabbia e limone, frammento dopo frammento: dovevano splendere tra le selve nei combattimenti senza che le gocce di sudore degli opranti le macchiassero di ruggine».

Video tratto dallo spettacolo “Tra i Sentieri dei Ventimiglia”, di Costanza Arena e Roberto Salvaggio, prodotto dal Museo Civico di Castelbuono in collaborazione con l’Associazione Figli d’Arte Cuticchio, grazie a Elenk’Art

Un teatro di fatica ma senza corpo quello dell’Opera dei Pupi: qual è la sua fascinazione senza tempo?
«Negli anni del teatro tradizionale di mio padre, il ciclo della storia dei paladini di Carlo Magno durava 371 serate. Episodio dopo episodio, ne ho trascritto i canovacci antichi a mano, insieme a mia sorella. Gli opranti, spesso analfabeti, conoscevano a memoria le “vite” dei personaggi e le loro battute; le imparavano vedendo e rivedendo recitare in teatro il maestro. C’erano Orlando, Rinaldo e molti altri personaggi: le loro vicende s’intrecciavano alla maniera del “meraviglioso” di Ariosto. Gli uomini che venivano in teatro raccontavano le storie della Chanson de Geste alle mogli prima di addormentarsi, i pescatori ne parlavano fra loro al porto. Era un teatro fatto da uomini per gli uomini; l’unica donna era mia madre e stava alla cassa. Durante gli spettacoli, c’era un silenzio religioso che esplodeva nel chiasso del tifo per l’uno o l’altro dei paladini, come quando si assiste a una partita di calcio o a un incontro di pugilato. È “il dono” di movēre, anima e corpo, che rende l’incanto dell’Opera dei Pupi senza tempo».

Qual è l’attualità dell’Opera dei Pupi oggi in una società 2.0.?
«L’Opera dei Pupi affonda le sue radici nella Sicilia dei Greci. È uno strumento antico di espressione e comunicazione, suscita un sentimento poetico, ancestrale, e parla della vita, oggi. Quando, vent’anni fa, ho portato sulla scena dell’Opera dei Pupi Mastro Don Gesualdo non stavamo già denunciando il femminicidio? Quando, accolto da Papa Benedetto XVI, ho inscenato il combattimento tra Tancredi e Clorinda, due giovani ammazzati nel nome di Dio, non stavo “romanzando” la tragica sorte di palestinesi e israeliani?»

Nel 1973 Lei inaugura il Teatro dei Pupi Santa Rosalia in Via Bara all’Olivella, a Palermo, ancora oggi attivo.
«Quell’anno segna un cambiamento di rotta nella storia dell’Opera dei Pupi: non esisteva più il pubblico tradizionale dell’epoca di mio padre, che veniva in teatro tutte le sere, puntata dopo puntata. Ho intercettato il pubblico di domani e sono andato nelle scuole, portando in scena l’Iliade e l’Odissea per far sopravvivere un mestiere outsider. Da allora ho costruito nuovi pupi e fondali, sceneggiature e copioni inediti: Don Giovanni di Mozart, con le musiche dal vivo di Monteverdi; La Passione di Cristo, in un ciclo ispirato alle Sacre Scritture; Macbeth, fra le tragedie di Shakespeare; uno spettacolo dedicato a Garibaldi, in occasione dell’anniversario dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia.
Il primo copione “moderno” è nato nel 1975: la storia di Cagliostro, avventuriero ed esoterista vissuto nel XVIII secolo. La prima all’’Accademia Filarmonica di Roma è stata un successo di pubblico e di critica: “L’Europeo” gli ha dedicato due paginoni, dal titolo “Mimmo Cuticchio. Rinnovarsi o morire”. A Palermo, invece, gli studiosi di tradizioni popolari e gli intellettuali de “L’Ora” mortificavano la rivoluzione in corso nel mio teatrino».

La sua città, Palermo. Palermo Capitale della Cultura 2018 è notizia di poche settimane fa. Un commento.
«Ho dedicato una vita intera a Palermo. Via Bara all’Olivella è stata la prima strada chiusa al traffico in città. Sono andato di persona a battermi a Palazzo delle Aquile perché diventasse area pedonale. Cultura è anche questo.
Oggi i giornali pubblicano la notizia di Palermo Capitale della Cultura 2018 scegliendo ancora le fotografie di un puparo ormai imbiancato, Maestro dell’Opera dei Pupi. Anche l’UNESCO ci ha messo il suo sigillo! Eppure, con mia grande amarezza, a Palermo non esiste un teatro dove il pubblico che partecipa ai miei spettacoli a scena aperta in giro per il mondo possa recarsi, con un cartellone aggiornato e moderno di lungo corso. La Città dei Ragazzi, il Teatro Montevergini, la Chiesa di San Mattia dei Crociferi: tre promesse disattese, negate, da parte dell’Amministrazione della mia città. Ho sempre fatto richiesta di uno spazio dove poter incontrare i giovani, gli allievi e le scuole. E, invece, il silenzio … La storia insegna che non basta salvare l’uomo in mare, bisogna potergli assicurare una casa, un futuro».

Una politica dell’emergenza e della “Resistenza”, a proposito di cultura, insomma. Come immagina l’Opera dei Pupi fra altri quarant’anni?
«“Visita guidata all’Opera dei Pupi” è stato, già nel 1989, uno spettacolo di denuncia, comico e commovente: interpretavo Don Paolo, puparo-oprante, che, sotto il rumore dei bombardamenti americani, si premura a salvare i pupi dalla devastazione e dalla polvere, animandoli e recitando insieme a lavoro su un palcoscenico di ruderi.
Quarant’anni fa ho fondato l’Associazione Figli d’Arte Cuticchio per conservare questo patrimonio eccezionale di cultura e di teatro. Con me, oggi, lavorano mio fratello Nino, mia nipote Tiziana e mio figlio Giacomo, pianista e compositore, che si divide fra musica e marionette. I sacrifici, come vede, continuano a farsi in soltanto in famiglia …
Il laboratorio, in Via Bara all’Olivella, è frequentato da giovani e appassionati allievi, che mi accompagnano in tournée. Fino a quando nasceranno nuove generazioni di pupari e opranti e si tramanderanno le tecniche e i canovacci, la poesia dell’Opera dei Pupi continuerà a trasformarsi, a farsi contemporanea e non morirà. Gli uomini invecchiano e muoiono, le marionette si consumano ma resistono. Resistono a testimonianza della storia, come fa un libro, un monumento o un film documentario. Non esiste la verità, ci sono solo storie. E di storie l’Opera dei Pupi vive».