Europa, Security for Sale

Storia di un’inchiesta collettiva sul senso dell’Europa per la sicurezza
di Lorenzo Bagnoli

Ci sente come alla fine di una lunga corsa in solitaria, alla Forrest Gump. A volte non ci si ricorda nemmeno perché si è cominciato. Ma si corre, perennemente spinti dal sentimento di andare oltre, sperando, una volta conclusa la corsa, di trovare qualcosa di meglio del semplice “Sono un po’ stanchino”, per stare alla citazione cinematografica.

L’inchiesta Security for Sale è stata una corsa lunga un anno. Il progetto giornalistico ha prodotto articoli usciti in 10 Paesi europei, con il contributo in tutto di 22 giornalisti. A guidare il consorzio, che continuerà a pubblicare insieme almeno fino a marzo, quando sono in programma alcune nuove uscite sullo stesso filone, è stato un quotidiano olandese, De Correspondent. Faccio parte di quel team grazie all’associazione di giornalismo investigativo IRPI. Abbiamo tracciato i fondi europei investiti nella ricerca per potenziare la “sicurezza” di noi cittadini.

Quando si cominciano queste imprese, in un mondo dove il giornalismo è sempre più povero e stitico, si deve sempre giustificare l’investimento, anche fisico.

Perché correre per 12 mesi, con tutta la fatica (anche economica) che questo comporta?

Anche i finanziatori di questo genere di giornalismo se lo chiedono E, nel nostro caso, la fondazione Journalism Fund che ha sostenuto il progetto non ha fatto eccezione. La speranza è che la risposta si trovi in ciò che si leggerà. “Dietro le quinte”, però, chi fa onestamente questo lavoro difficilmente smette di porsi il quesito.

Ci siamo chiesti che idea di mondo ha in testa chi decide quali ricerche e quali progetti meritano di essere finanziati con dei fondi europei.

Ricordo com’è cominciato tutto, ragionando sul significato di “sicurezza”, tenendo quindi un’impostazione molto diversa da un’inchiesta “tradizionale”, quasi più affine a quella di una ricerca universitaria. Eppure partire da quel quesito ci ha consentito di bucare quel velo di propaganda che poi rende digeribile tutto ciò che è fatto per combattere “terrorismo e immigrazione irregolare”.

Nessuno dice che le grandi compagnie non debbano ricevere denaro pubblico per fare ricerca. La scelta, semmai, è per fare cosa. L’assenza di trasparenza nella comunicazione dei risultati, la presenza di grandi lobby al tavolo di chi poi scrive la prossima agenda della sicurezza, l’eterno ritorno di ricette vecchie come il mondo sono tre elementi che emergono con decisione dall’inchiesta. Di nuovo, nulla di male. Eppure queste tre dimensioni, a mio parere, rivelano come l’UE sia un Far West privo di regole comuni anche senza Marine Le Pen, Geert Wilders, la Brexit, il gruppo di Visegrád o Matteo Salvini.

Il particolarismo degli Stati-nazione traspare anche nel modo in cui si gestisce la regolamentazione sull’export dei beni destinati alla sorveglianza, oppure nei trattati con i Paesi vicini per garantire la comune “sicurezza”. Anche i fondi della ricerca, sono aiuti comunitari suddivisi proporzionalmente. Nulla di più.

L’Europa è sempre solo uno sponsor, un bancomat che eroga i fondi che gli Stati nazionali non possono avere. 

È l’ennesimo fronte in cui l’Europa come idea viene sconfitta. E forse è quella che brucia di più, visto che arriva in casa, cioè in un fatto economico.

A prima vista, quindi, parrebbe paradossale che a raccontare questa ennesima assenza europea sia stato un consorzio di giornalisti europei.

Che sono riusciti nell’intento di costruire una piattaforma collettiva capace non solo di andare oltre modi diversi di lavorare e sensibilità differenti di affrontare le notizie, ma anche di far emergere delle alternative possibili e far nascere un dibattito continentale.

Se mai si dovesse scrivere la storia di questo consorzio, si dovrà ricordare una domenica pomeriggio di metà ottobre alla redazione di Die Zeit. È stato l’ultimo weekend in cui il gruppo ha lavorato assieme. E una volta finito il lavoro, i presenti si sono spostati nell’area ludica del giornale, dove c’era un tavolo di ping pong. Sono cominciate partite senza fine, che prontamente ricominciavano allo scandire di “One more”, una in più, falsa promessa fatta al resto dei presenti e che in cuor proprio, ognuno sapeva che non avrebbe voluto mantenere. Era anche nato il nome in codice dell’inchiesta: “PPP – The Ping Pong Project”.