Alice, non una radio qualunque

Quarant’anni fa la violenta chiusura della storica emittente bolognese. Uno dei fondatori racconta perché è stata un’esperienza unica nel suo genere

di Cora Ranci

Era il 12 marzo 1977. Il giorno prima, un carabiniere aveva ucciso, sparandogli, Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta Continua. Le immagini della Bologna di quei giorni richiamano scenari di guerra: nel centro città appaiono blindati, barricate, fumo. La brutalità della repressione raggiunge l’apice. Già da un anno Radio Alice era diventata un vero e proprio social network tra i giovani e gli studenti. Chiunque poteva telefonare e parlare in diretta. Così la radio finisce per raccontare in diretta quello che sta accadendo, attraverso le parole degli stessi testimoni oculari dei fatti ancora in corso.

Alla fine di una giornata particolarmente violenta, la polizia irrompe nella sede di Radio Alice, in via del Pratello 41, distrugge i mixer e arresta tutti i presenti con l’accusa di avere, tramite la diretta radio degli scontri con la polizia, istigato a delinquere. Dal canto loro, gli arrestati hanno sempre sostenuto di avere esercitato il loro diritto di fare controinformazione su quanto stava accadendo. Le accuse non ressero alla prova dei fatti: venne infatti dimostrato che Radio Alice non diresse gli scontri, ma si limitò a darne notizia.

Ma è stato forse il modo in cui la notizia veniva data a fare paura, in un momento di tensione altissima. Cos’era, allora, Radio Alice? Perché era diversa dalle altre radio sia locali che nazionali? Perché, a distanza di quarant’anni, viene ancora ricordata, non solo da chi l’ha fatta o ascoltata e non solo a Bologna? Lo abbiamo chiesto a Valerio Minnella, uno dei fondatori.

Si ringraziano i curatori della mostra fotografica “Qui Radio Alice” ed Enrico Scuro, autore della maggior parte delle fotografie, per aver gentilmente concesso l’utilizzo delle immagini riprodotte.