Qu’est-ce qui se passe à Calais avec les migrants?

di Ilaria Bianco, da Calais

“Calais ed i suoi abitanti hanno dovuto superare delle prove che non meritavano. Per troppo tempo siamo stati esposti alle conseguenze di una pressione migratoria che ha sconvolto l’equilibrio della nostra città (…). Ognuno di noi deve esserne consapevole: se lo smantellamento del campo rappresenta la fine di un’era, rappresenta anche l’inizio di un’altra (…). Natalia Bouchart”.

Ad accogliermi nella ‘ridente’ cittadina di Calais nel Nord più Nord della Francia (è quasi Inghilterra, ne c’est pas?), oltre ai miei coinquilini/colleghi/servizio civilisti francesi ho trovato anche questa bella lettera indirizzata a tutti i residenti della città da Natalia Bouchart, sindaca della stessa.
Calais non è una città turistica, né tanto meno ci sono grandi cose da vedere; c’è il mare, ma per un’abruzzese come me vedere gli inglesi bianchicci farsi il bagno non appena c’è un po’ di sole nello stretto pezzetto che separa il piccolo comune dall’Inghilterra è alquanto bizzarro, sebbene comprensibile. Ebbene perché proprio Calais? Il n’y a rien à faire!

Ho scelto Calais come meta per il progetto di studio Erasmus Placement, che consiste nella possibilità di trascorrere un periodo di tre mesi all’estero svolgendo uno stage piuttosto che un tirocinio in un ente, un’impresa o, come nel mio caso per l’appunto, un’organizzazione non governativa.

Presentando una sorta di ‘progetto’ il più possibile conforme agli studi fatti si può in parte essere sostenuti dall’Unione Europea andando a svolgere l’attività proposta nel Paese scelto; nel mio caso ho subito pensato di continuare il mio percorso iniziato già a Bologna sulle migrazioni, così ho cercato e contattato l’ong attiva a Calais da quasi vent’anni L’Auberge des Migrants.

Ero già stata a Calais circa due anni fa, ma in maniera del tutto autonoma e senza contatti con realtà del posto: ricordo di essere arrivata tra la notte ed il mattino della fredda domenica di Pasqua. Quel giorno nella fattispecie i tantissimi migranti erano stati appena fatti ‘spostare’ dal campo di fortuna creatosi in prossimità dell’Eurotunnel in una posizione completamente esterna al comune stesso: si era iniziata a costituire per l’appunto la più nota Jungle col chiaro intento di espellere il problema dalla città di Calais, per poter agli occhi di tutti ‘ripulirla’… come si dice, via il dente via il dolore no?

Pian piano questo campo è cominciato ad essere sempre più popolato, così tanto da divenire il più grande campo profughi europeo.

Parallelamente a ciò, volontari provenienti da tutta Europa (e, piano piano, non solo limitandosi ad essa) hanno iniziato a prendere il posto delle associazioni locali, prese in contropiede da questo ‘allontanamento’ forzato che sapeva di esilio.

Da allora i mesi sono iniziati a trascorrere lenti, inesorabili, giornate fredde e di pioggia sempre uguali, condizioni sempre peggiori, tende in aumento quotidiano: la Jungle diveniva sempre più grande in termini di affluenza e sempre più inospitale. Poco prima del 7 novembre 2016 infatti, alla fine di agosto, in quell’accampamento di fortuna allestito alla periferia di Calais risultavano essere stati censiti circa 6901 migranti. All’arrivo sempre più costante di volontari anche da paesi extra-europei si accompagnava il segno evidente del fatto che la Jungle non fosse più solo un problema locale, bensì internazionale.

In quegli stessi mesi col nascere della Jungle era stata sgomberata anche la striscia di terra larga cento metri lungo la strada che costeggia il porto, iniziata da quel momento ad essere presidiata sempre più permanentemente dalle forze dell’ordine per impedire il passaggio dei migranti che quotidianamente sfidano la sorte nella notte, cercando di salire sui camion diretti verso il Regno Unito.

Lo spazio occupato dall’accampamento precedente alla Jungle si era ridotto, aumentando invece il numero dei migranti che si spostavano nei Centri di Accoglienza e di Orientamento (Cao) sparsi in tutta la Francia, dove è di base possibile presentare domanda di asilo.

Questi provvedimenti e le partenze verso il Regno Unito, continuate nonostante i rigorosi controlli, avevano ridotto la pressione migratoria a Calais, dove erano rimaste circa 3.500 persone. Ma, come per una sorta di ‘eterno ritorno all’eguale’, la geografia della città segna il destino della stessa: con l’estate i profughi sono tornati; in Siria e in Iraq del resto le guerre continuano e la situazione non è migliore in paesi come l’ Eritrea o il Sud Sudan.

A ciò si aggiunge come ‘lenitivo’ il fatto che col bel tempo la traversata del Mediterraneo appare forse più facile e molti migranti espulsi da Parigi si iniziano a spostare di nuovo verso il Nord, a Calais.

Maya Conforti, da tempo attiva nella mia ong, in quei mesi osservava che Calais era “il posto dove va chi vuole fare domanda di asilo politico. Grazie al passaparola tutti sanno che qui ci sono ong che possono aiutarli”. Da Calais poi risultava anche più facile trovare posto in un centro d’accoglienza: “Ci sono tre partenze verso i centri ogni settimana: il martedì, il mercoledì e il giovedì”, spiegava ancora Maya.

È appena terminata la mia prima settimana qui e, in aggiunta al fatto che la situazione appare mutata solo dal punto di vista formale (la Jungle in quanto tale non c’è più a partire dal 7 novembre!), le più recenti trovate del sindaco sfiorano l’assurdo e l’immorale e la lettera molto lunga e piena di promesse per un futuro roseo e di crescita per il comune ed i suoi abitanti fa ben individuare il piano iniziato ad essere messo in atto già da prima della costituzione della Jungle, cercando di salvare il piccolo comune da perturbamenti provenienti dai troppi migranti.

Lo scorso lunedi 13 marzo, all’interno dell’Entrepôt (o Worehouse, per dirla all’inglese come i co-gestori della stessa, membri di Help Refugees) l’associazione con la quale ho iniziato quest’avventura ha ricevuto una raccomandata dalla Prefettura del Pas-de-Calais con la quale si ordinerebbe la messa in regola della cucina (la Refugees Community Kitchen) in cui ogni giorno si preparano migliaia di pasti caldi e rispettosi delle culture dei vari migranti a cui sono destinati, portandoli nel campo di Dunkirk (comune vicino Calais) o ai vari migranti che si trovano ormai vagabondare nuovamente in città, non essendoci spazi di accoglienza.

Un colpo duro per l’Auberge des migrants che beneficiava di una ‘tolleranza’ sul territorio ormai da più di una ventina d’anni.

Il costo dei lavori richiesti per omologare la cucina conformandosi alle regole igieniche di un qualsiasi ristorante si aggirerebbe intorno ai 120mila euro; tale pretesa, per quanto triste, ho subito iniziato a capire come non sia stato visto affatto come un fulmine a ciel sereno per quanto il boccone da ingoiare abbia avuto per tutti il sapore troppo amaro: tale gesto va a porsi in perfetta coincidenza con una serie di segnali forti che il sindaco sta da tempo cercando di rivolgere nei confronti di realtà locali e solidali ai migranti; tale minaccia va ad inserirsi perfettamente nella diatriba tra associazioni, città di Calais e Stato.

“Ci viene chiesto di seguire le stesse regole d’igiene di un ristorante”, dichiara il presidente dell’Auberge des Migrants Christian Salomé. “Ci impongono di trasformarci da una cucina familiare quale è quello che effettivamente siamo a qualcosa di professionale. Questo avrà per conseguenza un aumento del costo dei pasti nonché l’obbligo di cambiare il nostro equipaggiamento per rispondere a tali norme. Questi lavori si aggirano attorno ai 120.000 Euro da fare da qui a due mesi, altrimenti dobbiamo chiudere i locali della cucina”.

Ma l’Auberge, che si alimenta di donazioni e solidarietà di privati nonché della forza materiale e non solo di volontari che da tutta Europa giungono anche solo per il fine settimana, non ha abbastanza denaro da parte.

“L’associazione conta unicamente sulle donazioni dei privati e vorrebbe lanciare un appello a riguardo. Quest’obbligo del sindaco di Calais giunge in un momento particolare e delicato e, soprattutto, non per nulla casuale. Esso sopravviene in un momento storico in cui le varie associazioni di aiuto ai migranti di Calais vivono una situazione particolarmente dura”, aggiunge Christian Salomé.

Andando a domandare ai miei ‘colleghi’ vengo dunque a sapere che nell’ultimo mese il comune aveva bloccato i lavori per l’edificazione di alcune docce nei locali del Secours Catholique, altra realtà molto viva e attiva nel sostegno ai migranti già da anni.

Poi, poco prima della raccomandata recapitata nei locali dell’Auberge e di Help Refugees, una successiva ordinanza comunale ha invece proibito le distribuzioni di cibo; è in seguito a tale ennesimo colpo basso e del tutto coincidente rispetto ad un piano per così dire migrants unfriendly, che più associazioni insieme all’Auberge hanno infine lo scorso 13 marzo stesso depositato un ricorso al Tribunale Amministrativo di Lille: da venerdì siamo in attesa di avere un responso.

Torniamo nuovamente a qualche mese fa: con lo sgombero della Jungle si pensava forse che le cose sarebbero cambiate a Calais?

Domandando qua e là soprattutto ai volontari e a chi è qui da sempre, scopro che con gli inizi del 2017 molti migranti sono tornati ad arrivare, dagli inizi di febbraio anzi senza sosta: le varie associazioni ne avrebbero contati circa 300 a febbraio (di cui la metà minori), gli stessi 300 che poi avrebbero subito tentato un passaggio clandestino in Gran Bretagna.

Tutti i volontari si dicono sempre più preoccupati della situazione umanitaria: i posti per accogliere tutti non bastano in tutta la Francia e a Calais, non essendoci posti per una prima accoglienza, il destino è quello di rimanere fuori, al freddo, andando così a riportare nuovamente al centro della città quel problema che due anni fa si era cercato di ‘spostare’ dalla vista cittadina, simulandone quasi una non esistenza effettiva.

Afgani, Sud-sudanesi, eritrei, giovani ragazzi ma soprattutto dei minori non accompagnati ripartiti in piccoli gruppi in tutta la Francia, tutti desiderosi di essere trasferiti in Gran Bretagna in virtù della convenzione di Dublino, che prevedrebbe delle eccezioni in materia per l’appunto di minori non accompagnati (I minori non accompagnati, bloccati a Calais ma che possono vantare di parenti prossimi installati oltre la Manica, possono guadagnare legalmente la costa inglese per raggiungere i propri familiari).

Di fronte alle tante richieste post-smantellamento la risposta di Londra il 9 dicembre è stata un secco e generalizzato NO, compresi bambini e bambine, il tutto senza esplicite motivazioni.

Subito dopo lo sgombero della Jungle, inoltre, essa era subito apparsa ricrearsi nella grande ‘ville lumière’: associazioni parigine come Utopia 56, nata nel 2015 e da subito operante nella Jungle, ha continuato a perseguire le proprie azioni solidali spostandosi appunto sulla capitale francese, nei vari accampamenti; ma in virtù di un ritorno anzi di un aumento (poiché l’affluenza non è mai cessata) del numero di migranti a Calais constatata soprattutto tra la fine del 2016 e gli inizi del 2017, Utopia ha deciso di organizzare delle maraudes nella città, accanto alle associazioni Help Refugees e l’Auberge des migrants

“Queste maraudes sono iniziate da poche settimane. Dopo lo sgombero della Jungle non si trovavano più così tanti migranti, per quanto essi si nascondessero. Ma ne abbiamo ricominciati a vedere molti tra il 15 ed il 20 gennaio tutti i giorni nelle prossimità della stazione, tra cui soprattutto molti minori eritrei. Scopo di queste maraudes è di parlare con loro, di ascoltarli, di portargli delle coperte, vestiti, pasti caldi. Si è tornati alla situazione storica di 3 o 4 anni fa, quando non c’era né campo né accoglienza… ad eccezione del fatto che adesso ci sono molti più poliziotti in giro!”, mi racconta uno dei fondatori di Utopia.

A partire da gennaio difatti, nel periodo di maggior freddo qui a Calais, le associazioni reclamano più che mai il fatto che il governo non abbia rispettato la promessa di creare “dei dispositivi e degli strumenti di assistenza per i migranti che sarebbero tornati a Calais, promessa fatta da Bernard Cazeneuve il 7 novembre stesso, data appunto del démantelament”.

Tra il freddo, le avversità e i tentativi di passare la Manica su dei camion, molti sono anche i morti investiti che si contano.

Il 21 gennaio è morto sull’autostrada A16 Jamal Saami Humad, di nazionalità etiope; su di lui quella notte sono passati molti veicoli, nessuno dei quali si è fermato. Jamal non era nuovo qui a Calais: noto come ‘John Sina’ aveva trascorso qualche mese a Norris-Fontes e poi era arrivato a Calais.

Jamal era stato anche uno dei pochi a credere nelle promesse delle autorità del governo francese, poi vistosi rigettare dalle autorità britanniche e per questo tornato nuovamente lungo la frontiera per cercare di ‘passare’ comunque clandestinamente.

Dalla fine di gennaio ad oggi il numero di migranti che arriva a Calais è in costante aumento; la maggior parte sono giovani, nuovi arrivati o tornati dai Cao. Il Governo, malgrado le sue promesse, rifiuta ancora di aprire un luogo di accoglienza per far fronte a situazioni inumane come le odierne ed il più vicino campo a Grande-Synthe è ormai sovraccarico.

In tutto ciò alle associazioni come l’Auberge tocca ormai spesso giocare durante la notte a nascondino con la polizia per poter distribuire cibo, coperte, sacchi a pelo, vestiti pesanti.

Il divieto emesso dal Sindaco di distribuire cibo ai migranti appare forte, inumano ed indegno. Le distribuzioni di pasti non solo corrispondono ad un bisogno vitale, ma permetterebbero anche di distribuire coperte e vestiti pesanti in maniera da evitare malattie e morti per strada.

Contribuirebbero alla sicurezza dei cittadini di Calais – tanto cara al Sindaco stesso – evitando eventuali gesti disperati dei migranti.

Queste consegne, sono anche l’occasione spesso unica di reperire degli eventuali problemi medici e di salute dei minori vittime del freddo, permettendo – perché no – anche d’informare i migranti circa i loro diritti, circa le possibilità di accoglienza in Francia e, in ultimo ma non per importanza, permettendo un tentativo di protezione maggiore sull’infanzia, visti i tanti anzi troppi minori presenti.

Il 13 marzo, il giorno in cui il sindaco ha fatto recapitare tale raccomandata all’Entrepôt, ero anche io lì, arrivata ormai da 3 giorni. Come ogni mattino il punto di ritrovo da dove tutto inizia e si divide e proprio lì, posto in cui arrivano donazioni di ogni sorta, camion di ogni tipo a portare farina, riso, vestiti e coperte, giocattoli; i boulanger locali dal cuore grande fanno recapitare dozzine di baguette, pain au chocolat e pane di ogni tipo per i pasti e le consegne di cibo quotidiane; dalla Warehouse partono camion per Parigi e dintorni.

In tutto ciò, ecco anche la letterina del sindaco: la cucina de l’Auberge/ Refugee Community Kitchen (RCK) rischierebbe di chiudere. Questa cucina preparerebbe ogni giorno un migliaio di pasti caldi (600 circa per Grande-Synthe e 400 e più per Calais); una ventina di volontari vi lavora ogni giorno.

Nel mese di settembre, mi raccontano gli inglesi della cucina RCK, alcuni controlli dei servizi igienici e di sicurezza erano già arrivati, limitandosi però a fare dei richiami abbastanza ridicoli e pretestuosi quali il ‘prendere la temperatura dei piatti caldi distribuiti nelle maraudes notturne’; altri invece bisognosi di centinaia di milioni di Euro per poter essere applicati, come il ‘costruire luoghi adatti alla preparazione di pasti caldi e pasti freddi’!

Di fronte all’ennesima forte minaccia comunale mi sono subito sentita molto preoccupata per le nostre sorti oltre che arrabbiata; tutti intorno a me invece non sembravano aver fatto una piega.

Nelle menti di tutti, una sola parola: perseverare. E difatti da quel momento sembrerebbe essere in atto una vera e propria ‘guerra dei pasti’: in seguito al divieto del sindaco di consegnare cibo, abbiamo cominciato a svolgere delle distribuzioni quotidiane di cibo ‘statiche’, così le chiamano quelli dell’Auberge.

La prima ha avuto luogo proprio lunedì stesso (nulla dunque ha fermato l’attivismo e la solidarietà quotidiani, neanche per solo un giorno!), all’esterno dell’hangar (rimessa) Paul Devot, proprio accanto al porto.

Le distribuzioni statiche di lunedì e di martedì si sono svolte bene, nella tranquillità, sotto un occhio più inquisitore e vigile lunedì e molto meno martedì, con un furgone del CRS (Corpo Speciale Antisommossa) e di una vettura della Polizia Municipale.

Mercoledì invece l’hangar è stato circondato da furgoni del CRS e di vetture della polizia; i molti volontari che si avvicinavano allo svolgimento della consegna dei pasti sono stati controllati e la distribuzione si è dunque interrotta.

Vi era, ha sostenuto la polizia, una richiesta diretta del Procuratore che venisse bloccato tutto ciò per identificare le varie persone presenti. Ma la distribuzione non si è interrotta nemmeno stavolta, avendo comunque avuto luogo spostandosi dal punto di ritrovo dei primi giorni.

Ad oggi siamo in attesa della sentenza proveniente da Lille, nonché in una quotidiana attesa di nuovi aiuti e donazioni, come tende o coperte e piumoni: qui a Calais la primavera non sembra ancora essere così prossima. Siamo poi in un costante bisogno di studenti di diritto ma soprattutto di volontari desiderosi di spendere anche solo due soli giorni delle loro vite qui: perché per ora nessuna ordinanza del sindaco sembra fermare quel sostegno basilare che qualsiasi uomo in quanto tale meriterebbe; nessuna ordinanza del sindaco fa demordere anzi sembra che il ‘micromondo’ che mi sta intorno e nel quale io mi sto pian piano inserendo sia ancora più motivato a svolgere sempre meglio la propria missione.