Yemen, tempesta imperfetta

Inizia il terzo anno di guerra, dilaga la catastrofe umanitaria

di Christian Elia

immagine di copertina di Mohammed Huwais

Il 25 marzo 2015 iniziava l’operazione militare Tempesta Decisiva contro lo Yemen. La guida, da due anni, l’Arabia Saudita, sostenuta da tutti i paesi del Golfo, tranne l’Iran e l’Oman, con l’Egitto, il Sudan, la Giordania e il Marocco.

Obiettivo della missione di Ryad, restaurare il potere del presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, salito al potere dopo la caduta del regime di Alì Abdallah Saleh, crollato nel 2012 dopo un dominio incontrastato che durava dalla riunificazione del paese nel 1990 e per quello che era lo Yemen del Nord, dal 1978.

Proprio Saleh sostiene invece i ribelli houti (Yemen’s Houthi Ansarullah Movement), legati allo zaydismo (vicini allo sciismo), ritenuti eterodiretti dall’Iran, che dopo una lunga insurrezione nel nord del Paese (che lo stesso Saleh aveva combattuto) oggi hanno costretto Hadi alla fuga, protetto dall’Arabia Saudita.

Le semplificazioni sono pronte per l’uso: sunniti contro sciiti, Arabia Saudita contro Iran. Come in tutte le semplificazioni, ci sono elementi da non trascurare, ma è sempre il potere e il controllo dei territori che anima i conflitti e lo Yemen lacerato non fa differenza.

A questi elementi, esplosi quando le milizie houti – dopo una serie di manifestazioni antigovernative nel 2014 – subirono arresti di massa e reagirono in armi, arrivando nella capitale Sana’a, si aggiungono le tensioni regionali. A quel punto Ryad, con il principe bin Salman, giovane e rampante ministro della Difesa saudita, ha lanciato l’offensiva, per riprendere il controllo di uno stato che è la porta meridionale dell’Arabia Saudita e per scongiurare l’influenza iraniana in un altro stato dopo l’Iraq.

Al netto delle dinamiche geopolitiche, come sempre, resta sul campo lo scempio dei civili e il dramma umanitario.

Ad oggi si calcolano, a seconda delle fonti, almeno 7mila vittime (Onu) e 12mila tra morti e feriti tra i civili (Amnesty International), 18 milioni le persone che necessitano di assistenza umanitaria e oltre 3 milioni quelle costrette a lasciare le proprie case.

Ben prima dell’inizio del conflitto, lo Yemen era il paese più povero della penisola arabica. La situazione, adesso, è resa ancor più drammatica dalla concentrazione dei combattimenti nella zona orientale del Paese, sul mar Rosso, da dove transitavano almeno il 70 per cento degli aiuti alimentari.

Gli stessi soccorsi umanitari sono in crisi. A luglio dello scorso anno, secondo le testimonianze raccolta da Elise Bouthemy di L’Orient-Le Jour, il coordinamento interagenzie dell’Onu (Iasc) ha inserito il paese tra le crisi di livello tre, quelle più gravi, ma le condizioni di sicurezza per gli operatori sono minime.

Medici senza Frontiere
, che ha visto colpite spesso strutture che sosteneva, ha dovuto sospendere le operazioni nella zona nord – orientale dello Yemen. Sempre secondo le testimonianze raccolte da Bouthemy, almeno il 55 per cento delle strutture sanitarie non funziona, anche per l’assenza di personale, che nessuno paga.

E la comunità internazionale che fa? I tentativi di colloqui di pace si sono infranti per ora contro la rigidità saudita, che non vuole e non può permettersi di certificare il fallimento del suo debutto militare come potenza regionale, nonostante l’incapacità di aver ragione di un gruppo armato di uno stato poverissimo, e anche sull’atteggiamento degli houti, che il 5 marzo scorso, attraverso il loro portavoce Mohammed Abdulsalam, hanno ribadito come la fine delle operazioni militari saudite sia la precondizione a ogni colloquio di pace.

Il 22 marzo scorso, di fronte alla Commissione Esteri del Senato Usa, come riportato dal magazine The Intercept, Gregory Gottlieb di UsAid, l’agenzia umanitaria governativa statunitense, ha parlato della più grave crisi umanitaria che si vive nel pianeta.

“In Yemen, più di 17 milioni di persone – circa il 60 percento della popolazione – sono a rischio di sostentamento alimentare, 7 milioni di queste, non sopravvivranno senza aiuti umanitari”. Parole affilate come una lama, quelle di Gottlieb, che ha aggiunto: “Questi dati fanno dello Yemen la maggior emergenza alimentare del mondo”.

immagine tratta da Internazionale.it

UsAid, da tempo, ha chiesto al governo di smetterla con la vendita di armi all’Arabia Saudita. L’amministrazione Obama aveva – parzialmente – recepito l’appello, dopo forniture militari a Ryad (dall’inizio delle operazioni militari contro lo Yemen) calcolate in più di 20 miliardi di dollari, secondo Human Rights Watch. Armi usate, sempre secondo Hrw, per distruggere e bombardare ospedali, infrastrutture civili, scuole.

Gli Usa, da tempo, si sono disinteressati alle sorti di un’area dove intervengono solo con i droni. Uno studio dell’International Security mostra come l’uso dei droni sia massivo, da tempo, e indiscriminato, come già denunciato dai The Drone Papers.

L’amministrazione Trump ha debuttato proprio approvando un attacco mirato finito in tragedia, proprio in Yemen. Hanno perso la vita nove bambini, otto donne e un soldato Usa, danneggiando una scuola, una moschea e un piccolo ambulatorio medico. Obiettivo dichiarato al-Qaeda in Yemen. Solo che è stato un eccidio fallimentare, come lo stesso senatore conservatore McCain ha twittato a Trump, ricevendo in cambio degli insulti.

L’amministrazione Trump, che ha inserito lo Yemen nel cosiddetto Muslim ban, ha stanziato – secondo fonti del Washington Post – un carico di armi enorme per l’Arabia Saudita, compresi moderni missili teleguidati. Ufficialmente la fornitura, che comprende anche un ricco carico per il Bahrein, è destinata alla ‘lotta all’Isis’, ma ammesso e non concesso che Ryad combatta l’Isis, per certo utilizza questo carico di morte nel conflitto yemenita.

La responsabilità morale dell’Italia, nel conflitto, non è residuale. Amnesty International ha lanciato un duro appello: “Il Governo italiano sta continuando a fornire armi all’Arabia Saudita e agli altri membri della coalizione da utilizzare contro lo Yemen, violando il diritto nazionale e internazionale. Tra le norme violate, ci sono quelle stabilite nel Trattato sul commercio delle armi a cui l’Italia ha aderito proprio per prevenire la sofferenza umana dovuta ad uno commercio sconsiderato e senza regole, oltre alla legge italiana 185/1985 che vieta espressamente la vendita di armi a paesi coinvolti in conflitti armati. Anche bombe prodotte in Italia sono state utilizzate in questi due anni di violento conflitto, come confermato dal Rapporto delle Nazioni Unite sul conflitto nello Yemen dello scorso 27 gennaio dove si mostrano le prove dell’utilizzo di bombe targate RWM da parte della coalizione araba nella capitale Sana’a”.

La Rete italiana per il disarmo – un anno fa – ha presentato un esposto in diverse Procure d’Italia per chiedere di “indagare sulle spedizioni di bombe dall’Italia all’Arabia Saudita”.

L’appello non fa sconti: “La conferma dell’utilizzo delle bombe italiane nel conflitto in Yemen arriva anche dal “Rapporto finale del gruppo di esperti sullo Yemen”, trasmesso lo scorso 27 gennaio al Presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alcuni organizzazioni specializzate, riportano la possibilità concreta di almeno sei invii di carichi di bombe dall’Italia verso l’Arabia Saudita. Lo scorso ottobre l’allora Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni per la prima volta ha ammesso, in risposta ad una interrogazione parlamentare, che alla RWM Italia sono state rilasciate licenze di esportazione per l’Arabia Saudita. La responsabilità del rilascio delle licenze di esportazione ricade sull’Unità per le Autorizzazioni di Materiali d’Armamento (UAMA), incardinata presso il Ministero degli Esteri e della Cooperazione e che fa riferimento direttamente al Ministro.

Ma nel percorso di valutazione per tale rilascio incidono con ruoli stabiliti dalla legge i pareri di vari Ministeri, tra cui soprattutto il Ministero della Difesa. Va inoltre ricordata la presenza di un accordo di cooperazione militare sottoscritto dall’Italia con l’Arabia Saudita (firmato nel 2007 e ratificato con la Legge 97/09 del 10 luglio 2009) che prevede un rinnovo tacito ogni 5 anni, e grazie al quale si garantisce una via preferenziale di collaborazione tra i due Paesi in questo settore, comprese le forniture di armi. La legge italiana 185 del 1990 che regolamenta questa materia afferma infatti che le esportazioni di armamenti sono vietate non solo come è già automatico verso le nazioni sotto embargo internazionale ma anche ai Paesi in stato di conflitto armato e la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica. Al governo chiediamo di porre fine a questa vendita e di rivedere le autorizzazioni alle esportazioni di sistemi militari verso Ryad”.

La risposta chiara e definitiva non è arrivata. E non possiamo smettere di chiederla. Anche rispetto a tutti gli altri stati che, da decenni, foraggiano Ryad.

Se la linea è quella che non si muova un dito per non indispettire i sauditi, alleati importanti di Usa e Ue, nonché preziosi partner commerciali, tanto meno per un Paese che ha dato rifugio a molti esponenti di al-Qaeda, si è sempre più vicini alla totale disumanizzazione della politica occidentale, capace solo di piangersi addosso davanti all’ennesimo atto di odio in patria, ma totalmente anestetizzata di fronte a migliaia di morti.

L’interrogazione parlamentare in Italia per chiedere chiarezza sulle armi all’Arabia Saudita