TAP, ovvero del selvaggio Sud-Est

La repressione delle proteste dei cittadini non può essere l’unica risposta dello Stato alle domande delle comunità locali


di Alessandro Macchia

Doveva accadere prima o poi, e difatti è accaduto. Circa sei mesi fa avevamo domandato a Gianluca Maggiore, uno dei più dinamici fra gli attivisti NoTap, se a San Foca, nei pressi del cantiere per l’approdo del famigerato gasdotto, ci fosse il rischio un giorno o l’altro di scontri violenti.

Maggiore rimarcò con orgoglio che non sarebbe stata sollevata una mano, se non per mostrare che era nuda. E così è stato: lo provano decine di video amatoriali.

Armata di tutto punto, il 28 e il 29 marzo, era, viceversa, la polizia, in assetto da battaglia, neanche fosse un G8: considerate le modalità di svolgimento dei tafferugli, ci si domanda se fossero forze dell’ordine o del disordine. Evidentemente qualche burattinaio avrà ritenuto veritiero il proverbio salentino che dice: “quantu cchiù forte chioe, tantu cchiù mprima scampa” (“quanto più forte piove, tanto prima smette”).

E giù grandinate di manganelli polizieschi, a destra e a manca, contro contadini, giovani donne, inermi studenti di liceo, sindaci e consiglieri regionali che manifestavano pacificamente. È chiaro che dietro la faccenda di TAP gli interessi sono esorbitanti: interessi, nondimeno, privati, camuffati da strategie energetiche di Stato.

E allora torniamo alle origini di tutto. Nel 2003 l’Azerbaijan cominciò a valutare quattro diversi progetti per esportare il gas del ricchissimo giacimento di Shaz Deniz nel mar Caspio, con l’ausilio di partner stranieri in grado di indirizzare la politica estera del Paese.

Se il tornaconto azero all’esportazione del gas era ed è connesso alla crisi petrolifera, alla base degli interessi europei e statunitensi v’era anche l’intenzione di sottrarre del tutto l’occidente alle forniture di gas russo. Si trattava, sostanzialmente, di creare una linea meridionale del gas in concorrenza a Gazprom.

Dei quattro progetti, uno fu scartato in tempi brevissimi. Gli altri tre rimasero a lungo allo studio. Si trattava del TGI Interconnector, di Nabucco e di TAP (Trans Adriatic Pipeline). SOCAR (State Oil Company of Azerbaijan Republic) doveva stabilire quale fosse più conveniente, anche nella previsione di convincere la Turchia a lasciar transitare sul suo territorio il gas azero senza pretendere compensi elevati. Il primo progetto, il TGI Interconnector era il più indicato in termini di realizzazione pratica, ma poco vantaggioso in chiave di ritorno economico.

Ben più interessante da questo punto di vista risultava Nabucco, che avrebbe dovuto passare per Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria, facendo peraltro della Bulgaria stessa il principale beneficiario del gas azero. Il nome di Nabucco fu attribuito dai ratificatori del progetto (i rappresentanti dell’austriaca OMV, dell’ungherese MOL Group, di Bulgargaz, della rumena Transgaz, della turca Boats) dopo una piacevole serata con Giuseppe Verdi presso il teatro dell’Opera di Vienna.

Si trattava di un progetto ambiziosissimo, ma si manifestarono presto delle importanti resistenze, tant’è che, dopo una lunga fase di stallo, nell’autunno del 2009 Elshad Nassirov, il vicepresidente di SOCAR, in un misto di delirio e di impazienza chiese una mano agli Stati Uniti, per il tramite dell’ambasciatore Morganstern, allo scopo di sbloccare la realizzazione del Nabucco Pipeline.

Secondo la documentazione di wikileaks, Morganstern rispose che gli Stati Uniti non potevano essere più europei degli europei e Nassirov obiettò che se l’Unione Europea non era in grado di giungere a una conclusione, se era incapace di decidere il proprio destino, sarebbe stato bene che lo avessero fatto gli Stati Uniti per loro. Un lustro più tardi arriva il colpo di scena: si abbandona Nabucco e si declina sul progetto in assoluto meno interessante in termini di ricavi: TAP, la terza opzione, che avrebbe visto coinvolte Albania, Grecia e Italia.

Il consorzio sventolò, come ragione del cambio di rotta, l’indicazione che i prezzi del gas erano più interessanti in Italia e Grecia.

Ma il fallimento di Nabucco era di natura politica, come rimarcò uno dei grandi delusi, Gerardt Roiss, il capo esecutivo di OMV Austria, il quale notò che era dubbioso che in regime di austerità si potessero applicare prezzi più alti in quei due Paesi. In realtà, TAP scalzò Nabucco perché, fra le altre cose, le autorità dell’Azerbaijan verosimilmente non volevano problemi coi russi.

È ampiamente nota l’avversione della Russia per il progetto Nabucco, non fosse altro perché avrebbe strappato, all’acquisto del gas, un partner fondamentale come la Bulgaria. Il progetto russo di South Stream avrebbe dovuto essere per l’appunto un mezzo per uccidere il progetto europeo in pole position. In tutto ciò, la scelta di TAP lasciava di fatto la Bulgaria come la più grande sconfitta della partita e la Grecia come l’apparente vincitrice.

Si aggiunga che a dispetto delle resistenze politiche già verificate da Nassirov nella stessa Bruxelles, le autorità politiche greche e italiane manifestarono al contrario accondiscendenza e malleabilità. Al cambio di programma a favore di TAP, Barroso non nascose il suo entusiasmo: «Accolgo con favore la decisione da parte del Consorzio SOCAR, che ha selezionato la Trans Adriatic Pipeline come la strada europea del Corridoio meridionale del gas. Si tratta di un successo per tutta l’Europa: una pietra miliare per il rafforzamento della sicurezza energetica della nostra Unione. Il nostro odierno incontro con il presidente Aliyev fornirà sicuramente un ulteriore impulso alla realizzazione piena e rapida di tutto il corridoio meridionale del gas, ossia un collegamento diretto dal mar Caspio all’Unione Europea, che dovrebbe essere ampliato nel corso del tempo.»

A fianco alla Grecia, l’altra grande vincitrice della partita dovrebbe essere l’Italia. È questo, almeno, che i politici del nostro Paese sventolano alle folle. A noi, invece, sembra che l’Italia si comporti ancora una volta come il cane che a tutto annuisce, e consente quel che altrove sarebbe respinto. Resta in ultimo da chiedersi con chi l’Italia faccia questi strategici affari. E allora partiamo dalla considerazione che in Azerbaijan è meglio essere chiamati mafiosi che somari.

Ce lo ricorda l’arresto, fra gli altri, alcuni anni fa, di due blogger che avevano messo online un video travestititi da asini della politica per indicare degli investimenti finanziari sbagliati del governo azero. Questa vicenda aveva innescato un dibattito per il quale alcuni osservatori statunitensi, facendo riferimento alla nuova politica americana secondo The Godfather Doctrine: A Foreign Policy Parable di John C. Hulsman e A. Wess Mitchell, avevano parlato del circuito politico azero come di un sistema criminale sul modello del Padrino di Francis Ford Coppola, e del presidente Iliev Alieyv come di un misto tra Sonny e Michael Corleone, a secondo che si muovesse nell’ambito della politica interna o estera.

In un’intervista del 2009 Vafa Guluzade ammetteva che il paragone non era sbagliato. E se lo diceva Guluzade, dobbiamo dar credito. Difatti, egli è, per motivazioni che riguardano la sua personale carriera politica, il testimone perfetto della trasformazione di questo satellite dell’ex Unione Sovietica in una conclamata cleptocrazia.

Già consigliere per la politica estera del Presidente Heydar Aliyev (il padre di Iliev), Guluzade divenne l’architetto dell’apertura dell’Azerbaijan all’Occidente, con il concomitante e automatico allontanamento dalla galassia dei Paesi che fanno riferimento alla Russia. È proprio grazie alla grande intuizione di Guluzade che le società occidentali cominciarono a esplorare i campi petroliferi dell’Azerbaijan.

Si parlò del contratto del secolo. E dopo la scoperta del grande giacimento di gas di Shaz Deniz, nel mar Caspio, l’Azerbaijan ha potuto finanche offrirsi come partner ideale per diversificare l’approvvigionamento energetico occidentale dalla dipendenza russa. Con tutto ciò, l’economia dell’Azerbaijan ha registrato in questi ultimi anni una stagnazione profonda.

Il grado di sviluppo socio-economico non ha visto cambiamenti significativi. Nel 2013, l’anno della conversione a TAP, l’Azerbaigian era classificato 76° nell’indice di sviluppo umano. Nonostante l’immensa disponibilità di gas e petrolio, la maggior parte della popolazione azera riceve salari appena sufficienti per coprire i bisogni giornalieri.

Gli stipendi più elevati provengono, invece che da aziende di Stato, dalle società estere. Le persone che hanno legami con la classe dirigente però godono di più privilegi e di uno stile di vita migliore rispetto al resto del Paese. A tutto ciò vanno aggiunte le strette sempre più forti sulla libertà di opinione. In breve, l’Italia si dispone a fare affari con un Paese che non nasconde le sue espressioni totalitarie.

Ma del gas azero l’Italia ha davvero bisogno? Il nostro Paese ha forme alternative di energia, quelle a impatto zero, come si dice, che risparmiano danni al territorio. D’altra parte, gli scontri presso il cantiere di San Foca non sono una semplice e circoscritta difesa di qualche centinaio di ulivi. È che i salentini percepiscono ogni giorno sulla loro pelle e davanti ai loro occhi un rapido e prepotente processo di snaturamento della loro terra.

La difesa degli ulivi del cantiere TAP è la difesa estrema e strenua di un territorio che si desidera ancora incontaminato, libero dalle logiche del mercato, dai Twiga, dalle discoteche, dai grandi centri commerciali, dagli untori di xylella. In tal senso la risposta più significativa viene da Marco Potì, il nobile sindaco di Melendugno: di fatto, ora che hanno sradicato quasi tutti gli ulivi, la battaglia contro TAP, ci dice, non avrà fine. Continuerà, con la consueta civiltà con cui i Salentini l’hanno condotta in questi anni.

L’orizzonte, visto dalla marina di Melendugno, racconta del generale Niceforo Foca il Vecchio, che in un tempo assai lontano protesse le coste pugliesi dai saraceni. Di tanto storico orgoglio forse i saraceni d’oggi non sanno nulla. E forse la gravità di quanto succede oggi in Salento non è chiara nemmeno fuori della Puglia. O forse è tutta indifferenza, quantunque in questi stessi giorni una percentuale altissima di italiani sia affaccendata a prenotare la vacanza su quelle stesse coste che oggi vengono deturpate e violentate. Del resto, come dice un altro proverbio salentino, li cazzi te la pignata li sape sulu la cucchiara ca li gira.