Ogni epoca ha visto progressivamente aumentare i repertori delle motivazioni all’origine dell’esistenza dei profughi
di Stefano Gallo, tratto da il lavoro culturale
Apriamo la collaborazione con “Meridiana. Rivista di Storia e Scienze Sociali”. Stefano Gallo, curatore del numero Profughi, interroga narrazioni e categorie con cui abbiamo finora guardato alla figura del rifugiato
immagine di copertina: disegno di sam3 – fonte napolimonitor.it
La storia dell’Europa è in larga parte una storia di profughi. Fin dall’antichità i profughi sono stati una conseguenza di guerre, dei cambiamenti climatici o il frutto di precise scelte geopolitiche, come il popolamento e la coltivazione di territori strategici poco abitati.
Nell’età moderna si sono venute ad aggiungere altre cause, come le persecuzioni di matrice religiosa, politica o sociale. L’età contemporanea si è poi caratterizzata per le espulsioni di gruppi non rispondenti al criterio di nazionalità dello Stato di residenza. Ogni epoca ha visto progressivamente aumentare i repertori delle motivazioni all’origine dell’esistenza dei profughi. Schiacciati come siamo dalle emergenze dell’attualità, dimentichiamo di rivolgerci al passato per capire meglio il presente.
Lo spessore storico dei fenomeni sociali sembra essere purtroppo inconciliabile con il bisogno continuo di sensazionalismo da parte del sistema mediatico-spettacolare, il quale trascina con sé ogni possibile prudenza sui mutamenti avvenuti nel corso del tempo. A sua volta l’utilizzo di un registro enfatico ed emergenziale da parte degli organi di informazione e comunicazione comporta delle pesanti implicazioni sullo spazio politico, in primo luogo il diffondersi della convinzione che le risposte da dare non possano che essere a loro volta roboanti e semplicistiche.
La storia viene così a perdere il suo ruolo di ambito del sapere a cui rivolgersi per cercare strumenti di comprensione e azione nei confronti di questioni cruciali del presente, come quelle dei profughi o delle migrazioni.
La storia dei profughi è infatti a sua volta anche una storia di spostamenti e di migrazioni, in cui va tenuto sempre in considerazione il ruolo attivo degli individui nelle tappe dei vari percorsi. Il punto di vista dei soggetti – non solo il loro passato, ma anche il loro progetto di futuro, le pulsioni all’agire guidate dai desideri e dai timori – è un aspetto largamente ignorato dal dibattito pubblico attuale. Partiamo da qui nella convinzione che nessuna argomentazione storica possa evitare di confrontarsi con il dato ineludibile della libertà dell’individuo. Più di dieci anni fa, nell’introdurre un numero monografico di «Genesis» dedicato al tema Profughe, Silvia Salvatici proponeva una riflessione che ha acquistato con il tempo una valenza ancora maggiore:
Il fenomeno dei profughi è […] divenuto oggetto di un processo di ‘depoliticizzazione’, inteso come perdita di coscienza collettiva delle più profonde ragioni politiche, sociali e culturali dei problemi in questione. In questa prospettiva i rifugiati – e soprattutto le rifugiate – finiscono per risultare soggetti deboli, inevitabile conseguenza di crisi temporanee, portatori di bisogni più che di diritti.[1]
Il legame tra la mancanza di una prospettiva storica critica sul problema dei rifugiati e l’imporsi di una definizione di profugo in termini puramente privativi mi pare un nodo cruciale. Il profugo, il rifugiato ha subìto un’esperienza di sradicamento e di distacco violento, è colui a cui manca qualcosa. Il Novecento è stato il secolo del trionfo della logica dello stato-nazione e del pieno dispiegamento della potenza trasformatrice della macchina statale: è possibile identificare nel profugo il contrappunto negativo di questa storia, la sua immagine rovesciata.[2]
Il nazionalismo si è sviluppato sulla base di un progetto di costruzione o conquista di uno stato che ponesse tra i suoi obiettivi primari la tutela dei membri della “nazione”.
Il profugo appare una figura definita attraverso la mancanza di ciò che il Ventesimo secolo ha imposto come l’elemento fondamentale per la vita dell’individuo, ovvero la protezione dello stato. Il criterio di inclusione nella categoria di profugo è dato proprio dal suo “essere senza”. Non solo senza casa, senza protezione, senza il contesto sociale di riferimento, ma anche senza alcuna colpa per ciò che gli è successo. Passività assoluta quindi: il profugo è visto oggi come la vittima per eccellenza della violenza di stati o di gruppi sociali ostili.
Nell’opinione comune dominante questo implica anche un rapporto preciso con il tempo soggettivo: forniti di un passato che conceda loro la titolarità della protezione, i profughi sono oggi solo portatori di bisogni elementari da soddisfare nel presente, non però titolari di un progetto di vita per il futuro. Esistenze spogliate della possibilità di agire sul mondo: è il mondo – attraverso le autorità di stati o di organismi internazionali bendisposti – che può agire su di loro.
Dal punto di vista dei soggetti, i profughi sono quindi dei “senza-progetto”: siamo di fronte al massimo della distanza dalle peculiarità caratterizzanti l’essere umano, contraddistinto secondo il pensiero di Heidegger proprio dalla dimensione del «progetto» (Entwurf).[3] Questo aspetto, che potrebbe sembrare puramente teorico, presenta invece delle ricadute pratiche molto pesanti nelle politiche dell’accoglienza messe in campo attualmente dall’Unione europea: il quadro normativo predisposto dal sistema di Dublino presenta dei grossi limiti proprio in relazione alla realtà effettiva degli spostamenti, alle aspirazioni dei profughi e alle loro strategie.
Obbligare una persona che richiede asilo politico a espletare le pratiche nel primo paese in cui è stato identificato, come sancito dalla convenzione di Dublino, è un principio che non tiene conto del fatto che quella stessa persona potrebbe avere (e il caso non è raro) parenti o conoscenti in un altro paese europeo. Realizzare subito il desiderio di ricongiungimento dei richiedenti asilo consentirebbe un proficuo utilizzo delle autonome risorse relazionali, sia in termini di benessere psico-fisico sia in termini di inserimento sociale.
Persone che hanno subito traumi legati a guerre o persecuzioni hanno particolare bisogno di ritrovare ambienti conosciuti e protettivi: impedire questa pulsione può comportare invece aggravi sia a livello individuale che sociale. Quando le distanze tra i presupposti teorici dei sistemi di accoglienza e le caratteristiche concrete dei fenomeni diventano eccessive, si moltiplicano i problemi e le tensioni.
L’immagine del profugo di cui stiamo parlando, che si attaglia perfettamente a un’ideologia vittimaria che si è imposta negli ultimi decenni come plastica e ambigua risorsa da utilizzare in contrapposizione alle ideologie storiche novecentesche,[4] non è l’unica che si sia presentata nel corso del tempo. Lo aveva notato un pioniere dei migration studies come Aristide R. Zolberg, in un pioneristico lavoro collettivo condotto insieme a Astri Suhkre e Sergio Aguayoquesta declinazione del significato di rifugiato va affiancata ad almeno altre due, quella del «rifugiato come attivista, impegnato in qualche significativa attività politica che lo stato cerca di sopprimere, e il rifugiato come bersaglio, reso tale per la sventura di appartenere – spesso per destino di nascita – a un gruppo sociale o culturale oggetto dell’abuso del potere statale».
Accanto a queste, ecco emergere recentemente una terza categoria, che pur già presente in precedenza non aveva però occupato il centro della scena, tanto da non essere inclusa negli strumenti legali internazionali: «il rifugiato come pura vittima».[5] Ciò che distingue questo caso dagli altri è la totale assenza di responsabilità individuale.
Il “rifugiato-attivista” assume infatti le vesti di un eroe perseguitato da regimi autoritari per il proprio impegno politico: un esempio possono essere gli esuli cileni in fuga dalla dittatura di Pinochet, che trovarono ospitalità nel nostro paese dopo essersi rifugiati nell’ambasciata italiana di Santiago. Il “rifugiato-bersaglio” è il membro di una minoranza su cui si accanisce intenzionalmente uno stato brutale: gli armeni massacrati e deportati dalle autorità ottomane a partire dal 1915 sono uno degli esempi più noti, oltre che considerato come il primo genocidio europeo del Novecento.
In entrambi i casi la violenza avviene nella consapevole condizione delle vittime di essere passibili di persecuzione, per le scelte compiute o per una propria differenza identitaria, spesso anche fonte di orgoglio e rivendicazione. In qualche maniera presuppongono un agire. Non a caso l’accoglienza di questi profughi si è spesso accompagnata da parte delle società dei paesi di arrivo con un autentico interesse nei confronti delle forme politiche e culturali di cui erano portatori. Il “rifugiato-pura vittima” subisce invece una situazione di violenza generalizzata che ne trascende le caratteristiche personali, prescindendo completamente da un suo qualsiasi riconoscimento precedente. Dei siriani o dei sudanesi che arrivano oggi in Europa, in fuga da guerre atroci che insanguinano da anni i loro paesi, non ci interessa capire né la storia né le peculiarità personali, politiche o culturali: ci basta sapere che sono vittime, puri portatori di bisogni.
Lo stato di privazione e la mancanza di soggettività stanno alla base di una specifica definizione di profugo, storicamente determinata, che si è venuta a imporre nell’ultima parte del Novecento, prima affiancata da altre in maniera paritaria e oggi predominante.
È importante essere consapevoli di queste torsioni temporali, che altrimenti rischiano di inquinare i tentativi di problematizzazione storica. Se il profugo è una figura chiave del Novecento, svuotare di spessore l’esperienza del profugato per proiettare sul passato la forma delle categorie del presente – o, peggio, per ridurla a una semplice vicenda di imposizioni dall’esterno – implica un parallelo svuotamento di significato di una parte sostanziosa della vicenda storica europea. Può essere utile a proposito ricordare la vicenda personale dell’attuale presidente dell’Austria, Alexander Van der Bellen.
Nato durante la seconda guerra mondiale, la sua famiglia è stata protagonista nel corso del Novecento di due successive fughe, legate ai conflitti mondiali e ai rivolgimenti che li accompagnarono: i Van der Bellen scapparono prima dalla Russia rivoluzionaria verso l’Estonia e venti anni dopo, nel 1940, dal piccolo paese baltico verso l’Austria. Figlio di una coppia con passaporto estone, passata attraverso l’esperienza dei campi profughi, Van der Bellen non ha nascosto la sua origine nel corso della campagna elettorale del 2016: ha anzi presentato il suo essere discendente di profughi come un tratto identitario caratteristico. «Io sono figlio di rifugiati – ha dichiarato in un’intervista –, e l’Austria mi ha regalato una patria. Patria è per me qualcosa dove mi posso sentire bene, a mio agio, dove sono accettato, dove nel corso del tempo trovi lavoro, forse fai anche carriera. Patria è qualcosa che deve essere aperto». [6]
La storia europea è in larga parte una storia di profughi, una storia di soggetti attivi, che sono stati anche protagonisti della trasformazione sociale e politica del continente.
Note
[1] S. Salvatici, Introduzione, in «Genesis», 3, 2, 2004, p. 7 (numero monografico: Profughe).
[2] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967, pp. 375-419; per un più corretto inquadramento storico, si veda A. Ferrara, N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, il Mulino, Bologna 2012, pp. 22-31.
[3] «La perfectio dell’uomo, il suo diventare ciò che può essere, nel suo esser libero per la più propria delle sue possibilità»: M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006, p. 567.
[4] D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, nottetempo, Roma 2014.
[5] Escape from violence. Conflict and the refugee crisis in the developing world, a cura di A. R. Zolberg, A. Suhkre e S. Aguayo, Oxford University Press, New York – Oxford 1989, p. 30 (traduzione mia). Secondo la ricostruzione degli autori, lo Statuto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) del 1950, la Convenzione di Ginevra del 1951 e il Protocollo di New York relativo allo status di rifugiato del 1967, avevano intenzionalmente escluso la categoria di rifugiato come “pura vittima”.
[6] A. Mayr, Se divento presidente, in «il manifesto», 20 aprile 2016, p. 16.