Vale ancora il diritto internazionale nel conflitto in Siria?

Rispondere a un crimine di guerra con una violazione del diritto internazionale

di Vito Todeschini

Il disprezzo per il diritto internazionale costituisce un segno distintivo del conflitto siriano e gli eventi dell’ultima settimana non fanno che confermare questa inquietante verità. All’attacco chimico contro la popolazione civile perpetrato il 4 aprile 2017 dal regime di Assad a Khan Sheikhoun, una cittadina della provincia di Idlib situata nel nord est della Siria, l’amministrazione Trump ha reagito con il bombardamento della base militare siriana di al-Shayrat, da dove sembra sia partito l’attacco.

A una violazione grave del diritto internazionale umanitario si è risposto con la violazione delle regole sull’uso della forza armata dettate dalla Carta ONU. Cosa ci dice questo rispetto alla rilevanza del diritto internazionale nel conflitto siriano? Ha ancora senso appellarvisi per reagire ai massacri giornalieri compiuti in Siria, o va piuttosto messo da parte vista la sua inefficacia di fronte allo svolgersi degli eventi?

Questo breve pezzo intende riflettere su come il diritto internazionale sia in difficoltà nel dare risposta ai dilemmi etico-giuridici cui ci troviamo di fronte e su come, tuttavia, il suo rispetto rimanga una questione irrinunciabile.

Partiamo dall’attacco siriano a Khan Sheikhoun. L’uso di armi chimiche costituisce un crimine di guerra: il divieto del loro utilizzo è assoluto, a prescindere dal fatto che gli obiettivi colpiti siano civili o militari. Nello specifico del contesto siriano, per di più, il governo di Assad ha accettato l’obbligo di smantellare il proprio arsenale chimico. Ciò fu il frutto di un compromesso raggiunto dalla Russia per evitare che gli Stati Uniti, nel settembre 2013, dessero seguito alla minaccia di un intervento militare in risposta al precedente utilizzo di armi chimiche nel quartiere della Ghouta, a Damasco.

La Risoluzione 2118 del Consiglio di sicurezza dell’ONU non solo ordinava al governo siriano di consegnare l’intero arsenale chimico, ma si concludeva con l’avvertimento che, in caso di inadempienza, sarebbero state adottate misure coercitive, le quali includono l’uso della forza. L’attacco a Khan Sheikhoun prova che Assad e i suoi si sentono immuni tanto da possibili futuri processi per crimini di guerra quanto da interventi militari dell’ONU. Questo grazie al fatto che la Russia, alleata di ferro del regime siriano, ha il potere di veto su qualsiasi decisione in merito del Consiglio di Sicurezza ed è essa stessa coinvolta nel conflitto e nei massacri che lì si compiono.

Ciò che Obama non ha fatto nel settembre 2013, Trump lo ha messo in pratica due giorni dopo l’attacco chimico. Per la prima volta dall’inizio del conflitto siriano, gli Stati Uniti hanno deliberatamente bombardato e distrutto una base militare siriana.

L’azione militare è intesa come reazione all’attacco chimico a Khan Sheikhoun e come forma di deterrenza contro possibili nuovi attacchi. Gli esperti di diritto internazionale, tuttavia, concordano nel ritenere che tale bombardamento è in violazione della Carta ONU. L’articolo 2(4) della Carta stabilisce il divieto e la minaccia di uso della forza armata fra stati. Le uniche eccezioni a questa regola sono l’autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza (si veda il caso della Libia) e la legittima difesa.

È chiaro che al momento nessuna delle due può essere invocata: il Consiglio di sicurezza non si è pronunciato in merito e gli Stati Uniti non sono stati vittima di un attacco armato ‒ la condizione necessaria per poter usare la forza in legittima difesa.

Eppure i governi che hanno reagito al bombardamento statunitense in Siria, ad esclusione di Russia e Iran, hanno in qualche modo dimostrato il loro appoggio, in particolare astenendosi dal criticarne l’illegalità. Paradigmatico in tal senso è il comunicato stampa del ministro degli Affari Esteri Angelino Alfano: “L’Italia comprende le ragioni di un’azione militare USA proporzionata nei tempi e nei modi, quale risposta a un inaccettabile senso di impunità nonché quale segnale di deterrenza verso i rischi di ulteriori impieghi di armi chimiche da parte di Assad, oltre a quelli già accertati dall’ONU.”

Da questo tipo di posizioni emerge, seppur velatamente, l’argomento dell’intervento umanitario, cioè che sia legittimo usare la forza armata per prevenire o reagire alla commissione di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Qui e lì riaffiora l’idea, come sostenuto in seguito alle operazioni NATO in Kosovo, che gli interventi umanitari possano talvolta considerasi illegali ma legittimi: detto altrimenti, in violazione del diritto internazionale ma giustificati alla luce degli scopi di carattere umanitario.

Questi argomenti sono il frutto di una frustrazione profonda per l’impasse della comunità internazionale, e del Consiglio di sicurezza in particolare, di fronte al conflitto siriano.

Al contempo essi pongono un dilemma tanto etico quanto giuridico: come si può reagire, in maniera sia efficace che rispettosa del diritto internazionale, all’attacco chimico contro la popolazione di Khan Sheikhoun, il quale viola alla luce del sole le Risoluzioni ONU sullo smantellamento dell’arsenale chimico siriano e costituisce un grave crimine di guerra? Purtroppo, una lettura formalistica delle regole sull’uso della forza può solo dirci che l’azione militare statunitense è un atto di aggressione ai sensi della Carta ONU; e che la dottrina dell’intervento umanitario, anche volendo accettare i nobili intenti cha la animano, non è unanimemente accettata come eccezione al divieto dell’uso della forza.

Il fatto che il diritto internazionale non sembri in grado di dare risposta al dilemma di cui sopra porta allora a chiedersi se abbia ancora senso farvi riferimento rispetto al conflitto siriano. Alla luce delle circostanze attuali, le norme internazionali sull’uso della forza non sembrano poter fornire opzioni valide ‒ in termini militari ‒ per porre fine all’impunità di cui godono Assad e i suoi. Perché allora semplicemente non ignorarle?

Se la tentazione è grande, l’errore che ne deriverebbe potrebbe risultare persino maggiore. Dalle norme regolanti l’uso della forza, a quelle che disciplinano la condotta delle ostilità (il diritto umanitario) a quelle poste a protezione dei diritti umani, il diritto internazionale rimane, anche quando sistematicamente violato, un importante punto di riferimento tanto per gli stati quanto per gli individui. La Carta ONU, le Convenzioni di Ginevra e i vari strumenti sui diritti umani vincolano gli stati a tenere una certa condotta, allo scopo o di evitare che i conflitti scoppino o che siano combattuti senza riguardo per la popolazione civile. Tuttavia, le norme giuridiche hanno bisogno di essere applicate in concreto: è necessario che gli stati agiscano nel loro rispetto e che reagiscono di fronte alla loro violazione.

Condannare in maniera ferma l’illegalità di un’azione militare o di un attacco contro obiettivi civili potrà restare lettera morta nei fatti e non avere effetti concreti immediati, eppure serve a riaffermare che norme fondamentali del sistema internazionale sono state infrante e che ciò non può essere tollerato. Non solo: le norme internazionali si creano e si modificano anche attraverso la consuetudine, cioè una prassi seguita dalla maggioranza degli stati che sia continuata nel tempo e da essi considerata giuridicamente o socialmente vincolante.

Eccezioni al divieto dell’uso della forza possono prendere forma anche in tale maniera. Se il governo italiano intende appoggiare la decisione politica statunitense di bombardare una base militare siriana, è necessario che al contempo riaffermi l’importanza della legalità internazionale. In termini pratici il governo dovrebbe dichiarare in modo inequivocabile che la Carta ONU è stata violata, seppur in merito a un’azione bellica isolata (si spera) e per fini che esso ritiene giusti. Solo così possono evitarsi deviazioni pericolose dalle norme fondamentali che regolano l’uso della forza ed evitare che si creino nuove eccezioni tramite consuetudine.

Un modo per uscire dall’impasse fin qui descritta è di riformare, una volta per tutte, il Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Il Consiglio è un organo in cui siedono quindici stati: cinque membri permanenti e dieci temporanei a rotazione biennale. I cinque membri permanenti ‒ Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia e Cina ‒ godono del potere di veto, ossia della possibilità di bloccare l’adozione di risoluzioni. Ed è proprio il veto di Russia e Cina che finora non ha permesso al Consiglio di sicurezza di adottare sanzioni o autorizzare azioni militari contro il regime di Assad. Il protrarsi del conflitto siriano è almeno in parte dovuto al fatto che, nel corso di sei anni di guerra, il Consiglio di sicurezza non ha realmente agito, se non rispetto allo smantellamento dell’arsenale chimico siriano e al tentativo di imporre l’ingresso di aiuti umanitari.

Il mancato o cattivo funzionamento del Consiglio di sicurezza, e le conseguenze concrete della sua inattività, sono ottimi motivi per ricominciare a lavorare seriamente sulla sua riforma, magari abolendo il diritto di veto.

Sfruttando il seggio assegnatole per tutto il 2017, l’Italia potrebbe ad esempio assumersi tale compito e dare nuovo slancio ai lavori di riforma. Ovviamente questo è solo uno dei vari elementi in gioco. Il disastro cui assistiamo in Libia, diretta conseguenza dell’intervento militare autorizzato dal Consiglio di sicurezza nel 2011, dimostra che l’uso della forza, anche se in linea con la Carta ONU, non può essere l’unica risposta nel tentativo di risolvere un conflitto.

In conclusione, va ribadito che il diritto internazionale è rilevante anche quando non viene rispettato. Ogni qual volta la popolazione civile è vittima di un attacco, è essenziale riaffermare che le parti in conflitto hanno l’obbligo di colpire esclusivamente obiettivi militari, a pena di commettere dei crimini di guerra; e ogni azione militare che violi la Carta ONU e le norme sull’uso della forza va condannata come illegale. Le regole, anche quando violate, rimangono indispensabili per garantire la stabilità e la pace internazionale. Il loro disprezzo non porta necessariamente al caos, ma di sicuro aiuta a infiammare i conflitti.