Tunisia nuda

di Sergio Basso

 

C’era un tempo in cui la rotta che dalle coste dell’Africa porta verso Lampedusa non era un’autostrada della morte, ma una via dell’anima.

Saltando su una barca, l’uomo ha girato le coste del Mediterraneo strappando a ciascuna cultura portuale tutto quello che gli serviva per colmare il vuoto dello spirito.

Se lo immaginava bene Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, quando dai recessi degli abissi ritrae Poseidone alzare la testa stupefatto dalla presenza di un’ombra artificiale sul pelo dell’acqua: sembrava un pesce di dimensioni inusitate, ed era invece la prima barca costruita dall’uomo, che trasportava la spedizione di Giàsone e dei suoi. L’uomo aveva imparato a camminare al di là della battigia.

Le rotte dei venti non mutano nei secoli, è piuttosto l’uomo che decide cosa farne, come percorrerli: c’è una rosa dei venti che me lo ricorda in maniera ineludibile, incisa sul lastricato di marmo di una piazza, in una città romana dimenticata in Tunisia.

Quella rosa dei venti è la più grande conosciuta del mondo antico. Sono partito alla ricerca di quella piazza, verso al-Qayrawan, la città santa della Tunisia, dove sorge la più antica moschea di tutto il Maghreb. Ho in mano la foto di un caminetto del XVII secolo. Un’amica mi aveva chiesto di ritrovare la stanza originale dove il caminetto era stato murato. Pare che quel caminetto fosse un capolavoro dell’architettura tunisina del tardo Settecento. Mi sembravano tre cose, la piazza, il caminetto, la via dello spirito, non necessariamente in quest’ordine d’importanza, degne e sufficienti per partire.

È un viaggio che mi ha fatto constatare – per l’ennesima volta – come gli antichi furono capaci di un villaggio globale molto più interconnesso delle isterie dei nazionalismi del nostro presente.

Ed è iniziato così.

Appena sbarcato, non potevo non cercare Cartagine. Ci ho trovato un Carrefour. Si conserva ancora, nell’acropoli della città, Byrsa, il quartiere dei fabbri – o meglio, la sua planimetria. Gli Arme-hersteller che tanti lutti inflissero ai Romani si concentravano in un’area ridicola. L’industria bellica dell’antichità era di proporzioni modeste, anche se faceva male uguale.

Poi sono sceso a valle, e sono rimasto ancora più perplesso dal porto antico. La soluzione planimetrica era certo all’avanguardia: un anello di terra nella baia permetteva di raddoppiare i posti di parcheggio per le barche che arrivavano per piazzare le loro merci al mercato locale. Ma le dimensioni, ancora, fanno sorridere: passa più gente oggi per l’Autogrill di Roncobilaccio.

L’indomani, passo Tunisi e punto verso la frontiera dell’Algeria: mi metto sulla via per Bizerte e Cap Serrat. O meglio, non c’è nessuna via. La stradina si trasforma in uno sterrato e distruggo i battistrada dell’auto contro i sassi della mulattiera.

Lungo la piana verso Bizerte il paesaggio si dispiega, sembra un’Umbria rilassata, non corrugata. Il verde dei pascoli si fa abbacinante, sembra un mondo di pellicole Fuji. Ed è in questo technicolor, mentre ho accostato per uno spuntino e chiacchiero con un pastore che cerca di piazzarmi il suo Nokia usato, che incontro le donne albero. Sono un manipolo di ragazze, compreso una bambina che non raggiunge i sei anni, che stanno portando fascine di legna lungo la statale.

Le donne albero mi fanno venire in mente la profezia che apre il quarto atto del Macbeth:

un bambino incoronato, evocato dalle infide tre streghe, rincuora il tiranno eponimo:

“Macbeth shall never vanquish’d be until / Great Birnam wood to high Dunsinane hill /
Shall come against him.”. “Macbeth non sarà sconfitto fino a che il bosco di Birnan non muova verso Dunsinane”.

 

Ritornato verso Tunisi percorro la strada costiera verso sud. Punto alla città santa di al-Qayrawan, che ospita la più antica moschea del Maghreb, la Grande Moschea. La prima pietra fu deposta nel 670, di assedio in assedio venne distrutta e riedificata più volte, ma rimase sempre il modello imprescindibile per tutta l’Africa del nord-ovest.

La terra che percorro è l’antica Bizacena, terra di olivi, asini e cammelli. Nell’antichità, dovete immaginare metà Lombardia coltivata a olivi, come una sconfinata valle di Delfi che generava olio per tutto il Mediterraneo.

L’Egitto e la Sicilia saranno anche stati il granaio dell’impero, ma le olive partivano da qui.

I latifondisti locali erano berberi, volevano e dovevano parlare latino per essere à la page con i burocrati e i potenti, e dato che gli uscivano i soldi delle tasche, ce la mettevano tutta per emulare le forme di entertainment dei pezzi grossi a Roma. Detto fatto, si fecero non una ma ben due copie in scala quasi live del Colosseo. Oggi sopravvive la copia più tarda, quella del III d.C., e fa una certa impressione svicolare da Rue Ali Belhareth e trovarsi innanzi alla stessa vista di via degli Annibaldi a Roma, con qualche cammello in più placidamente inginocchiato ad aspettare i passanti. L’anfiteatro di el-Jem è davvero la copia carbone del Colosseo; non una copia kitsch post-moderna, come può essere il ponte di Rialto ricreato da un casinò dell’isola di Macao nella Cina ex-portoghese, ma una copia antica, in tempo reale.

 

 

 

 

Ho una faiblesse peri perdenti, sarà perché mi ci rispecchio. Cerco quindi le vestigia del secondo Colosseo, quello che nessun turista onora di una visita. Venne abbattuto presto, scalzato dal successo del secondo, più grande, e così da tempo immemore è ridotto a un’immane cava di materiale di recupero, quasi una discarica di mattoni e macerie. I bambini di el-Jem vi si ritrovano a guardare il tramonto. Uno vive a Reggio Emilia ed è qui con i genitori, per trovare i nonni. Mi indica una piccola costruzione, è il museo locale. “Forse trovi qualcosa che ti svela la vita di questo secondo ippodromo. I miei mi ci portavano quando ero piccolo”, mi dice dall’alto dei suoi undici anni. Non posso non obbedirgli.

I mosaici del museo locale ci raccontano ancora oggi le rivalità tra i sindacati di organizzatori dei giochi (manco le contrade di Siena), immortalano con tanto di nome gli stalloni più vincenti alle corse dei cavalli; le maschere funerarie ci conservano i tratti mimici dei possidenti locali. È impressionante: si tratta di berberi, di latino hanno solo il nome.

 

 

 

 

 

 

Attrae il mio sguardo un mosaico con un “gruppo borghese in un interno”: mi ricorda un’opera di optical art o la sigla di Kronos, una serie culto del 1966 su due scienziati in viaggio del tempo. Ma la cosa più seducente non è tanto la cornice, quanto l’ipnosi dell’immagine centrale, questa compagnia di teatro che ti scruta come in una Polaroid dal passato, a colori ancora vividissimi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lascio il Colosseo della Tunisia, inforchiamo la statale C87 e il crepuscolo mi trova invischiato in una manifestazione, un blocco stradale di protesta per la mancata costruzione di infrastrutture nella zona. I giovani non contengono più la rabbia e vogliono sfogarsi prendendo a forconate le auto di passaggio. Nemmeno l’ombra di una reazione delle autorità, nessuna pantera della polizia. Siamo incastrati tra due cancelli di pietra. Bruciano pneumatici, si alza una colonna di fumo e fuoco.

Alla fine alcuni conducenti algerini fanno ragionare i più facinorosi. I manifestanti spostano alcune pietre dall’asfalto, abbassano le mazze, ci fanno passare. Finalmente riesco ad arrivare alla città santa di al-Qayrawan.

Nei meandri della medina, a fianco alla Moschea delle Tre porte del IX secolo, sguscia da una porticina di legno intagliato Adned. Stende deciso la destra e si presenta con un “Ciao, io sono Adned, sono malato di mente”. Mi apre la porta di casa sua, sua madre ci accoglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Admehd mi fa notare che nei cortili come per tutta la città antica, il recupero e la ridigestione dei materiali dalle costruzioni bizantine è talmente massiccio da risultare come una fragranza putrida, eccessivamente odorosa, stordente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La madre di Ahmed mi rivela che il pezzo più antico della città è appoggiato contro la parete delle cucine dell’hotel Continental, ed è la stele funeraria di una coppia romana, probabilmente del III-IV secolo. Dall’iscrizione pare essere una coppia di liberti che era riuscita a creare un ranch nella zona: qui fino al VII d.C. non c’era una città.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È probabilmente per agglomerati di aziende agricole, e non per cittadine, che venne eretto il tempietto che abbiamo trovato in piena campagna prima di arrivare in città: la statua è stata asportata, ma la struttura ha retto la rabbia del tempo e si erge maestosa nella pianura che accoglie il viaggiatore che scollini da Dougga verso al-Qayrawan.

È la stessa sensazione che mi aveva assalito quando chiacchieravo con il guardiano di Bulla regia: una città romana e bizantina, con la planimetria perfettamente conservata. Puoi passeggiare per le strade di allora, soffermarti alle loro terme, guardare il loro teatro, come a Pompei; puoi guardare le loro abitudini cambiare nei secoli, arrivare le prime chiese, i battisteri per i primi fedeli. Ma non c’è più alcun turista, tutti terrorizzati dall’attentato al Bardo di due anni fa. Il guardiano mi accompagna sconsolato a vedere il deposito dei mosaici, il museo è chiuso da anni, in attesa di fondi inesistenti.

 

Passeggiando per l’altra Pompei tunisina, la rocca mozzafiato di Dougga, mi sono imbattuto in un mausoleo stranissimo: l’indomito condottiero locale aveva i soldi per chiamare uno scultore greco, ma voleva una tomba come quella dei suoi avi numidi. Fece scolpire il suo nome in latino, in fenicio e in numidico. Mi avvicino a leggerne il nome latino. E di colpo mi rendo conto di trovarmi nella città di Massinissa, “l’alleato dei Romani” che tanto ha angariato generazioni di liceali nelle versioni di Tito Livio.

Molti chilometri fa, al Museo del Bardo a Tunisi, mi aveva colpito il mosaico che immortalava la facienda di Julius, una villa del IV d.C. a Cartagine. È identica alle case che i conquistatori arabi avrebbero eretto per sé dal VII in poi. La continuità costruttiva è totale. Non c’è stato alcun trauma nella cultura materiale nel passaggio di testimone da bizantini agli arabi. Probabilmente le élite locali dovettero pure pagare meno di tasse.

È poi un locus communis dei compendi di storia che l’avanzata araba in Africa fu repentina, ma dopo tutto non fu così immediata. La mossa strategica geniale si deve al Pizarro arabo, ʿUqba ibn Nāfiʿ: eresse accampamenti lungo l’asse di penetrazione, in modo da non perdere i territori via via conquistati verso Est. Da qui partì anche l’opera di islamizzazione delle popolazioni indigene. Al-Qayrawan prese appunto le mosse da uno di questi accampamenti.

“Tutto cambia, nulla cambia”, come insegna il Gattopardo: l’importante era cooptare le élite.

In realtà i berberi resistettero strenuamente all’ondata musulmana. In molti casi si convertirono, senza però voler cedere il controllo politico.

Epica fu la lotta tra ʿUqba, il fondatore di al-Qayrawan, e Kusayla, il leader dei Berberi. Il secondo ebbe temporaneamente la peggio, venne catturato dal geniale condottiero arabo e costretto, in segno di curiosa umiliazione, a scuoiare una capra in pubblico.

Ma Kusayla riuscì a fuggire, riorganizzò la resistenza saldando un’alleanza tra berberi e bizantini, e con una Strafexpedition assalì e trucidò il suo carceriere.

Conquistata al-Qayrawan (che nel frattempo era divenuta una grande città), Kusayla vi stabilì la propria capitale, garantendo l’immunità agli Arabi rimasti in città: egli stesso era comunque musulmano. Gli Arabi dovettero penare altri quindi anni prima di sconfiggere Kusayla e una nuova eroina della resistenza tunisino-algerina, l’indovina Kahina, regina della tribù ebraica dei Ğerawa.

Sotto il regno degli Aghlabidi, la nuova città divenne un centro universitario sia per il pensiero musulmano sia per le scienze profane, con un ruolo simile a quello che avrebbe rivestito l’Università di Parigi in epoca medievale. Per capirci, la dinastia aghlabide è la stessa che organizzò la conquista islamica della Sicilia nell’827 d.C.

Ed eccola, questa moschea che vanta 1300 anni: 9000 metri quadri di preghiera, un’ampia corte interna più due corti più piccole. Appena entrati, il cicaleccio della medina si acquieta e gli occhi si soffermano incantati sugli azulejos di una delle due corti minori: le pareti riportano l’immagine della cattedrale di Santa Sofia a Costantinopoli, a 2700 chilometri da qui. Sono mattonelle smaltate che risalgono a dopo il 1453, quando l’ex chiesa madre bizantina era ormai stata trasformata nella moschea di Aya Sofya: “Tutto cambia, nulla cambia.” È tempo di andare a cercare il caminetto di Tunisi.

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