Turchia, una giornata particolare

Al voto per il referendum che potrebbe introdurre la repubblica presidenziale

di Christian Elia

Il 16 aprile i cittadini turchi si recheranno alle urne per votare in merito al referendum che, una volta approvato, muterebbe la Turchia in una repubblica presidenziale, superando l’attuale forma di repubblica parlamentare.

Un mutamento storico, nel caso in cui passasse, che riguarda un paese importante e la vita presente e futura di milioni di persone. Troppo importante per essere derubricata a tornata elettorale sulla figura dell’attuale presidente della Repubblica turca Tayyep Erdogan.

In pochi, però, riescono a svincolarsi dalla personalizzazione del voto, compreso lo stesso presidente. Da un lato è inevitabile, considerato il notevole potere che si accentrerebbe nelle sue mani, dall’altra però resta l’importanza di una riforma epocale per la Turchia. E questo elemento non va sottovalutato.

Saranno 18 gli articoli della Costituzione turca che verranno cambiati se passa il referendum, che è arrivato alla consultazione parlamentare grazie all’alleanza tattica tra l’Akp (partito di Erdogan) e la formazione nazionalista del Mhp, che ha garantito i voti necessari in Parlamento.

Un fronte che ha sorvolato su alcune divisioni, in nome di una sempre più rigida chiusura verso la minoranza curda del paese, che si sente rappresentata dal partito Hdp, capace di superare la soglia di sbarramento del 10 percento, ma al centro di una campagna violenta di arresti e persecuzioni, anche tra i parlamentari.

La riforma prevede la cancellazione della figura del primo ministro, con uno spiccato accentramento di poteri nelle mani del presidente della repubblica. A questa, di gran lunga la riforma più importante, se ne aggiungono altre: il numero dei parlamentari verrebbe portato a 600, la legislatura è estesa a cinque anni dai quattro attuali.

Il presidente, che sarà allo stesso tempo capo dello Stato e del governo, avrà maggiore influenza nelle nomine del Consiglio Superiore della Magistratura e dei principali boiardi di stato. Non sarà tenuto a lasciare la guida del suo partito e potrà essere eletto solo tra le fila di formazioni che abbiano ottenuto non meno del 5 percento dei voti e di non meno di 100mila elettori.

Tastare l’umore del paese è molto difficile. Mentre l’opinione pubblica internazionale guarda con sospetto alla riforma, tanto che nella ‘guerra mediatica’ tra la Turchia e la Germania (che ha negato le piazze delle sue città ai comizi dei politici turchi) i toni sono arrivati a un calor bianco mai visto prima, non va sottovalutato come l’elettorato di Erdogan abbia fatto quadrato rispetto alle ingerenze straniere.

La presunta regia esterna dei principali fatti di cronaca in Turchia negli ultimi anni, dai moti di Gezi Park al tentato golpe di questa estate, hanno compattato l’elettorato dell’Akp e i nazionalisti. La svolta presidenziale, presentata come elemento necessario per garantire stabilità di governo, passa anche per la ‘sindrome d’assedio’ della Turchia.

Erdogan, ormai da tempo, ha mutato strategia politica. Un tempo preoccupato di tessere buone relazioni internazionali, soprattutto con l’Ue, è sempre più autoreferenziale. L’Europa, facilmente ricattabile con l’accordo sui migranti, non fa paura. Gli Usa, almeno fino all’avvento di Trump, sembrano essersi praticamente ritirati dallo scacchiere medio-orientale.

Questo apre nuovi scenari e dopo aver scaricato i curdi (con i quali aveva ripreso il più incisivo percorso di dialogo da molti anni), ha preso atto del fallimento della tentata strategia egemonica sulle rivolte arabe, sentendosi anzi minacciato dal rovesciamento di Morsi in Egitto e dalla ritirata almeno parziale degli islamisti in Tunisia.

Oggi Erdogan punta tutto sulla politica interna, limitandosi a puntellare le posizioni strategiche nel vicinato (con un occhio alla Siria e uno all’Iraq). Questa determinazione è passata anche dalla rottura con l’alleato di un tempo, il predicatore Gulen, e all’epurazione di decine di migliaia di elementi legati a questo.

Oggi, delle pressioni internazionali sui diritti umani, a Erdogan non importa nulla. Vuole il potere, lo vuole saldamente nelle sue mani, anche rispetto al suo stesso partito, dove almeno in passato non sono mancati malumori per la sua svolta autoritaria.

L’Europa è bloccata: da un lato la pressione che subisce rispetto a un partner sempre meno presentabile, dall’altra quella di un membro Nato che pacifica le tensioni con la Russia e si allontana sempre più dagli Stati Uniti, ma che rimane per l’Ue un determinante partner commerciale e strategico, rispetto alla questione migranti.

Un rebus, che Erdogan ha ritenuto un’occasione. Ora sta alla società turca lanciare un segnale in un senso o nell’altro. Con tutte le difficoltà di un clima pesante, fatto di epurazioni e di pluralità in manette della stampa. Ma solo i turchi, senza che si possa generare l’ennesima percezione di ingerenza esterna, potranno sbarrare la strada all’uomo che ha deciso di farsi stato.