Siberia. “Questo il presidente non lo sa”

La Siberia vista dai suoi orfanotrofi in un diario fotografico e testuale

di Matteo Spertini.

Riguardo le mie foto, rileggo i miei testi, penso che niente era come lo avevo immaginato prima di partire. Quel freddo incredibile, pungente ma secco e più sopportabile di quanto avessi pensato. L’inverno, interminabile, quello sì più duro del previsto.

I bambini e i ragazzi degli orfanotrofi, che mi aspettavo aggressivi e introversi, vista la loro condizione, li scoprii invece positivi, disponibili e aperti. Il personale delle strutture, che immaginavo volenteroso e indaffarato, lo trovai invece chiuso e spesso ostile nei miei confronti.

La popolazione locale, che, nutrito dai cliché immaginavo rissosa, la trovai invece pacifica e tranquilla. La totale assenza di sogni indipendentisti, riscontrata nei miei interlocutori, in una repubblica così diversa e lontana da Mosca. Il Baikal, meraviglioso oltre ogni aspettativa.

Quel che mi rimane del mio anno siberiano, forse è soprattutto la consapevolezza che le cose stanno sempre in modo diverso da come le si immagina da lontano, nonostante la tecnologia e la possibilità illimitata di informarsi.

Forse è a questo che servono i viaggi, anche oggi.

Tra il 2014 e il 2015 presi parte al Servizio Volontario Europeo come animatore e organizzatore di laboratori in diversi orfanotrofi della Buriazia, repubblica russa a statuto speciale situata in Siberia sud-orientale; estesa tra il lago Baikal e il confine settentrionale mongolo. Una terra da sempre considerata centro dello sciamanismo boreale.

La popolazione laggiù si divide in una metà russa nel modo in cui tutti immaginiamo i russi e la restante parte buriata: etnia locale la cui origine mongola è palese nei tratti somatici, negli usi e nei costumi tradizionali, che conserva gelosamente.

Provo a raccontare la mia esperienza, indagarne aspetti diversi, in un piccolo diario fotografico e testuale. Un lavoro intimo e partecipato: una parte corposa delle fotografie del progetto fu scattata infatti dagli ospiti degli orfanotrofi in persona.

Non mi interessa si distinguano i miei scatti dai loro. Mi interessa piuttosto l’ambiguità creata da questo conflitto. Nel reportage tradizionale come lo conosciamo, è sempre palese la differenza tra chi racconta e chi è raccontato.

Questo rischia (in passato forse molto più di oggi) di creare una verticalità unidirezionale tra autore e soggetto, creando una condizione in cui un’élite crea reportage per sé stessa, raccontando situazioni terze, in cui i soggetti non hanno diritto di replica e sono talvolta “vittime” degli obiettivi di una società che spesso riceve testimonianze da angolature omogenee.

Non vado contro la concezione tradizionale di reportage; ma sono interessato all’enigma scatenato da un progetto in cui non è palese la differenza tra autore e soggetto, rafforzata dal fatto che negli orfanotrofi siberiani non avevo un ruolo di inviato, di fotografo, ma tutt’altro.

Questa condizione ha influenzato radicalmente il lavoro. Le fotografie in cui compaiono i minori ospiti delle strutture all’interno delle quali prestai servizio, sono brutalmente censurate da una linea bianca che trancia l’immagine all’altezza degli occhi del soggetto.

Questo nasce dalla consapevolezza di non avere il diritto di utilizzare quelle immagini e quindi i soggetti che ritraggono, per i miei personali scopi di ricerca e di muovere qualche passo nel mondo della fotografia documentaria.

Non hanno infatti deciso quei ragazzini di essere appesi in un museo stampati su carta pregiata, né di farmi vincere un premio. Quelle censure testimoniano piuttosto i rischi che corro affrontando un tema come l’infanzia violata ed emarginata dei miei interlocutori: un terreno in cui rasentare una stanca retorica è facilissimo.

Le censure sono il modo più diretto che ho trovato per raccontare la mia esperienza senza fare leva su una compassione inevitabile.

Senza scadere, almeno spero, nelle enfatiche lezioni di vita dei volontari che rientrano in patria spesso trasformando esperienze avute presso realtà di emarginazione, povertà e in generale di fragilità sociale, in solidi feticci egoistici con cui rafforzare il proprio ego.

Censurare le fotografie è il mio modo di sottolineare alcuni concetti, un po’ come faceva Jean Michel Basquiat, che cancellava le parole perché gli si prestasse maggiore attenzione.

E’ il mio modo di sottolineare l’inadeguatezza, l’impossibilità di trovare un linguaggio idoneo a raccontare la condizione dei miei soggetti. In un certo senso quei tagli sono essi stessi soggetto del lavoro.

Nel mio diario cerco di raccontare qualcosa che prima di partire consideravo incredibilmente lontano, estremo.

Estremo per la propria posizione geografica, per la propria condizione climatica e per la drammaticità delle carenze sociali ed affettive dei miei interlocutori, per giunta minorenni.

Una realtà che in un anno di permanenza ho scoperto essere vissuta dai bambini e dai ragazzi incontrati con normalità e con un ottimismo forsennato e caparbio. Irrazionale, agli occhi di un privilegiato come il sottoscritto.

In quanto vincitore del Premio Riccardo Prina 2016 (sezione fotografica del Premio Chiara Festival del Racconto), “Questo il presidente non lo sa”, il lavoro che ho presentato in questo articolo, è esposto al MAGA Museo Arte Gallarate (via De Magri 1, Gallarate, VA) fino al 1° maggio 2017. Testo introduttivo di Riccardo Blumer

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