Corpi di reato

Bonaventura, Imbriaco e Severo. Un’archeologia visiva dei fenomeni mafiosi nell’Italia contemporanea

di Giusi Affronti

Come può un progetto di fotografia documentaria raccontare la mafia oggi senza che compaiano né morti ammazzati né armi? Come può rinunciare nelle immagini alle persone e poi intitolarsi “Corpi di reato”?

Corpi di Reato. Fascicoli del Maxiprocesso, CIDMA, Corleone

Dall’esigenza intellettuale di rispondere criticamente a domande come queste, nel 2011, nasce il lavoro dei fotografi Tommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco, a cura di Fabio Severo. Con discrezione e rigore, consapevoli della portata della Storia che maneggiano, non cedono a facili compiacimenti della tecnica né a drammatizzazioni a gran voce.

A primo acchito, collezionano una sequela di paesaggi percorrendo il Belpaese da Nord a Sud, come un omaggio contemporaneo a “Viaggio in Italia” di Luigi Ghirri.

Una veduta di Pizzo Sella, a Palermo, e un’altra di San Marino; una cava di tufo tra Mazara del Vallo e Marsala e un cantiere stradale abbandonato sulla statale 106 Ionica, in Calabria; l’insediamento Buccinasco alla periferia di Milano e la discarica abusiva in Via Molinara a Desio. Nelle didascalie si leggono le molteplici storie di una cultura delittuosa che saccheggia i beni pubblici e riduce il paesaggio a terreno di sfruttamento: gli abusivismi edilizi o gli eco-mostri incompiuti, lì sotto gli occhi di tutti. Il cemento che puntella il paesaggio italiano senza dimenticare lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi.

La vista dal terrazzo della casa del boss Tano Badalamenti a Cinisi, donata al Centro Impastato nel 2010.

Il sottotitolo del progetto, “Un’archeologia visiva dei fenomeni mafiosi nell’Italia contemporanea”, ne rivela identità e intenti: è un’indagine “indiziaria” – archeologica, appunto – sul territorio, attraverso la fotografia, destinata a rintracciare i segni dell’azione criminale in Italia. E lo fa muovendo da un lavoro di ricerca d’archivio delle fonti documentarie, capace di rimanere in punta di piedi sulla soglia tra visibile e invisibile.

Bonaventura, Imbriaco e Severo compiono un viaggio attraverso regioni geograficamente distanti, dalla Sicilia alla Lombardia, tra realtà di provincia e contesti industriali apparentemente differenti.

Le fotografie compongono la complessa storia delle mafie, oggi disperse nel tessuto politico ed economico del paese, sempre più celate dietro una quotidianità anonima ma non meno efferata.

Corpi di reato, Circolo Arci Falcone Borsellino, Paderno Dugnano, Milano

Una strategia possibile diventa visualizzare il vuoto, attraverso un mosaico fatto di tessere che declinano le assenze che dalle mafie sono derivate: sale consiliari deserte di comuni commissariati per infiltrazione criminale, cantieri senza tempo sequestrati, reperti giudiziari e lettere minatorie, la carcassa dell’automobile su cui viaggiava Giovanni Falcone il giorno dell’esplosione, la portineria di Via Mariano D’Amelio a Palermo, un altro paesaggio: la veduta della ferrovia, a Cinisi, dove è stato ritrovato il cadavere di Peppino Impastato il 9 maggio 1978.

La latenza della mafia fa assonanza con latitanza. Uno dei temi, all’interno di “Corpi di reato”, nasce da un’altra domanda: dove vivono e dove si nascondono i boss mafiosi?

Dal lavoro di Bonaventura, Imbriaco e Severo apprendiamo che se negli anni Ottanta il boss Raffaele Cutolo compra il Castello Mediceo di Ottaviano per farne il quartier generale della Nuova Camorra Organizzata, oggi spesso gli affiliati vivono in palazzi-dormitorio di provincia, guardando le Alpi o nel mezzo delle campagne del Sud.

Emerge e lascia l’amaro in bocca una sensazione di normalità apparente, che ci coinvolge tutti: dov’è la mafia oggi? Probabilmente in una zona grigia e per questo s’”infiltra”, svapora agli occhi. Eppure in “Corpi di reato” l’inquietudine domina, già dalle luci delle fotografie e prima ancora di averne trovato ragione nelle loro didascalie.

 

In apertura, Collina di Pizzo Sella, Palermo, 2012. Nota come “la collina del disonore”, negli anni ’70 una ditta di costruzioni vicina alla famiglia del boss Michele Greco ha ottenuto le concessioni per costruire su Pizzo Sella circa 170 villette, che una sentenza del 2001 ha giudicato abusive e ne ha ordinato la confisca. Nell’aprile 2012 la Corte di Cassazione ha revocato la confisca, giudicando che all’epoca gli acquirenti avrebbero agito in buona fede, e quindi considerandoli non punibili con il sequestro delle abitazioni.