Primo Maggio

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (articolo 3 comma 2 Cost.)

di Angelo Miotto
@angelomiotto

Una Repubblica fondata sul lavoro.
È nel primo articolo della nostra Costituzione. E poi l’articolo 3, qui sopra.

Oggi è il Primo Maggio e il pensiero va a chi il lavoro non ce l’ha, a chi l’ha perso, a chi è sfruttato, sottopagato, discriminato e a tutti quelli che oggi dovranno comunque lavorare.

È una festa? Certo la si festeggia, perché a leggere la Costituzione stiamo parlando di un diritto, non di una semplice opportunità. Poi si apre la grande porta della trasformazione di questa parola dalla Costituente a oggi, anni luce, e ci sarebbe molto da dire e da scrivere.

Ma in questo Kratos del Primo Maggio il rapporto di forza è quello fra un sistema, capitalista, che è ancora capace di straziare carni nel furente restare dominante in gran parte del globo e l’intelligenza del poter dire che non siamo ancora stati capaci di liberarcene. Del capitalismo, certo, ma anche del lavoro.

A questo punto è previsto che molti lettori e lettrici abbandonino con sorrisi sarcastici: la dittatura del reale incontrovertibile, la morte della fantasia (che poi vada al potere non interessa ora). Ci siamo, vi siete, mai fermati in una giornata frenetica di lavoro e vi siete mai domandati perché nonostante tutte le conquiste scientifiche e tecnologoche, internet e il wi-fi, le app, il grande ‘circle’ dei social media e network, le nanotecnologie e anche l’automazione; ci siamo mai domandati perché non ci siamo ancora liberati dal lavoro?

Non disoccupati, ma retribuiti, in un sistema di reddito che viene spesso evocato in diversi formati e presupposti (reddito di cittadinanza, o il diverso reddito di inclusione o altre forme ancora) ma non applicato. E al di là delle volontà della classe dominante e poco dirigente si sente spesso una critica qualunquista, ma diffusa: eh già, e se poi diamo quei soldi uno fa il fannullone tutto il giorno e a spese dello stato. Da cui si torna a evidenziare un grosso e irrisolto problema culturale nel nostro Paese, che difficilmente risolveremo perché l’ignorazna è uno dei principali strumenti di potere o di eccitazione del popolo.

Se vi fosse un pensiero su come liberarci dal lavoro (che non significa sviluppare tecnologie che creano allarmismo fra gli umani rispetto alle macchine), se tornassimo a rivalutare l’otium dei nostri avi, che era occasione di studio e di applicazioni intellettuali del fare e della mente, avremmo fatto un passo rivoluzionario in avanti. Il che non significa far scomparire il lavoro o la possibilità di lavorare, ma renderci liberi dal fatto di dover basare la maggior parte degli sforzi della nostra vita – tranne l’1% dei dominanti appunto – sul rispondere a preoccupazioni di vario grado e titolo.

Il lavoro, l’occupazione, la fatica. Sempre andando indietro di molto era cosa da schiavi. E infatti, non abbiamo paura di dire che ancora oggi e non solo nelle fabbriche del terzo mondo, ma proprio anche nel lavoro intellettuale, abbiamo nuove schiavitù.

Il controllo. La connessione ininterrotta di mail e altri strumenti, le lacune della legislazione rispetto alle nuove forme di ricatto, l’arretratezza contemporanea del sindacato rispetto a una parcellizzazione delle tipologie, dell’ipersfruttamento, delle violenze psicologiche difficili da dimostrare, le minacce che son dette e a volte anche pensate con toni gentili. Non è solo la legge che potrà regolamentare tutto questo; l’esempio più lampante è la limitazione della posta elettronica aziendale in Germania e la realtà che dice che molti dipendenti si scambiano messaggi attraverso indirizzi privati. Perché la legge la puoi fare, ma se non cambia la subcultura è del tutto evidente che l’iperconnessione sarà ancora l’unica maniera per non accumulare ritardi e quindi creare sofferenze e fatiche ulteriori.

È una festa, quindi facciamo pensieri positivi. Immaginiamo, allora. Chiudete, chiudiamo gli occhi e immaginiamo la liberazione dal lavoro, dal cercarlo, dallo scalare carriere, e quanto spazio si aprirebbe fra i pensieri che riguardano e affondano le proprie radici nel senso della vita. Sarebbe la fine di un mondo basato sull’accaparramento, sulla confusione fra meritocrazia e arrampicatori sociali, un riequilibrio più umano che ci porterebbe a guardare oltre e a compiere il seguente passo, quello della redistribuzione, perché tutti possano avere una vita dignitosa.

I nostri padri sono quelli che trovano e trovavano nel lavoro una definizione. Personale. Sociale, di senso anche. Noi siamo molto più abbandonati a noi stessi, perché abbiamo capito. Perché gli schemi e le protezioni sono cosa passata. E ai nostri figli possiamo passare un testimone importante, con un passo in avanti rispetto a una libertà.

Ecco. Buona festa. Buona immaginazione. Buoni pensieri e aria di primavera, senza preoccupazioni, né angoscia, almeno per un attimo.

Eguaglianza dei cittadini. Pieno sviluppo della persona umana.