Gli scontri al parlamento di Skopje seguono anni di crisi politica e influenze contrapposte nella piccola repubblica ex jugoslava
di Francesca Rolandi
Durante la serata di giovedì 27 aprile un gruppo di uomini incapucciati ha fatto irruzione nel Sobranie, il Parlamento di Skopje, aggredendo e ferendo deputati e giornalisti.
La situazione, peraltro, era già tesa al momento dell’irruzione, perché si era appena tenuto l’insediamento del presidente del parlamento, Talat Džaferi, del partito albanese DUI (Unione democratica per l’integrazione), al quale i parlamentari del partito conservatore VMRO si erano opposti con canti e schiamazzi.
Da oltre due anni, da quando il presidente del partito socialdemocratico Zoran Zaev aveva diffuso la notizia che il partito allora al governo, il VMRO, avrebbe illegalmente spiato migliaia di cittadini, una crisi politica senza fine sta travagliando la piccola repubblica ex-jugoslava.
Mentre la piazza macedone protestava con costanza contro il malgoverno e la corruzione dell’élite al potere, in manifestazioni pacifiche e in molti casi trasversali alle comunità macedone e albanese, i due partiti di maggioranza si impegnavano in uno scontro che avrebbe bloccato le istituzioni del paese.
Inoltre, il VMRO con una serie di mosse aveva lavorato attivamente per riaprire le tensioni tra la maggioranza macedone e la minoranza albanese, coltivando un aggressivo nazionalismo macedone che fino ad allora non aveva avuto particolare presa nel paese.
Le elezioni del dicembre 2015 hanno visto uscire come partito di maggioranza relativa il VMRO, che però non è riuscito a formare un governo con i partiti albanesi, come era stata prassi fino a quel momento e come lo stesso partito in precedenza aveva fatto.
Una maggioranza alternativa si è formata intorno al partito socialdemocratico (SDSM) in coalizione con i partiti albanesi.
Tuttavia, il presidente Gjorgje Ivanov, in quota VMRO, ha sinora rifiutato di dare loro il mandato, appellandosi alla motivazione che tale coalizione avrebbe apportato cambiamenti incostituzionali all’assetto della Macedonia, andando incontro alle richieste della componente albanese che vorrebbe una federalizzazione.
In questo quadro l’elezione del presidente del parlamento rappresenta il primo passo per arrivare alla formazione di un governo in una condizione di democrazia bloccata.
Nella notte di giovedì i feriti vittime dell’attacco sono stati oltre 100, tra i quali cittadini, poliziotti e politici.
Gli incursori, dei quali al momento solo una quindicina sono stati fermati, farebbero riferimento al movimento Per una Macedonia unita, che da oltre due mesi manifesta per opporsi ad ogni possibilità di accordo con i partiti albanesi che implichi maggiori concessi alla parte albanese.
La polizia, che al momento non ha opposto resistenza all’irruzione in Parlamento, lo ha successivamente sgomberato con l’uso di reparti antisommossa e ha evacuato i parlamentari, tra cui il leader socialdemocratico Zaev e Zijadin Sela, dell’Alleanza del popolo albanese, gravemente ferito. Le immagini dei politici grondanti di sangue hanno fatto il giro del mondo.
Il ministro provvisorio degli Interni Agim Nuhiu ha successivamente dichiarato che una parte stessa della polizia non avrebbe risposto agli ordini del ministero stesso, ma a quelli di alcuni partiti politici, accusando pubblicamente Mitko Cakov, direttore dell’Ufficio di pubblica sicurezza, del partito VMRO, che a suo dire si sarebbe reso irreperibile durante la sera degli scontri.
Se il giorno successivo non si sono verificati scrontri durante le proteste, le dichiarazioni, al di là di un retorico appello alla non violenza, non sono sembrate concilianti.
Alla volontà di Zaev di procedere verso la formazione del governo, il leader dell’opposizione Nikola Gruevski, che da mesi chiede ulteriori elezioni, ha addossato la responsabilità di quanto accaduto ai democratici, mentre il presidente Ivanov rifiuta di dare mandato alla coalizione tra socialdemocratici e partiti albanesi.
Tuttavia, quello che si nasconde dietro ai conflitti che stanno lacerando la Macedonia, dove negli ultimi tempi si è addirittura parlato di proclamare lo stato di guerra, è un conflitto a freddo di influenze tra Unione Europea e Stati Uniti, da una parte, e la Russia dall’altra.
I primi appoggiano la formazione del governo tra Zaev e i partiti albanesi e l’uscita del paese dallo stallo, mentre la seconda considera illegale l’elezione del parlamento presidente del parlamento e chiede che la soluzione venga trovata nell’ambito della costituzione della quale però il presidente in quota VMRO, Ivanov, sta impedendo il funzionamento.
In questo modo Ivanov sostiene indirettamente i progetti del nazionalismo macedone, che vorrebbe espellere l’elemento albanese dal processo politico. Tuttavia, ciò rimetterebbe in discussione gli accordi di Ohrid con i quali era stato raggiunto un equilibrio dopo la breve guerra civile che aveva insanguinato il paese nel 2001.
Già nei mesi precedenti, anticipando in sordina quella che sarebbe stata la linea successivamente assunta con maggiore vigore dall’Ungheria, i settori vicini al VMRO avevano portato avanti un attacco contro la società civile dietro il cappello del movimento “Stop operacija Soros”, formato da personaggi vicini al VMRO, e gli scontri di giovedì sono stati, tra l’altro, etichettati come un tentativo di colpo di stato da parte di Soros.
Negli anni ’90 la Macedonia era riuscita a non lasciarsi trascinare nel vortice dei conflitti che avevano dilaniato i paesi vicini, anche grazie alla politica saggia e prudente del suo primo presidente, Kiro Gligorov.
Nel 1995 Gligorov subì un attentato nel quale perse un occhio e il paese venne infine, nel 2001, trascinato in un conflitto tra stato e gruppi armati albanesi, che si sarebbe poi rivelato l’ultimo episodio della dissoluzione della Jugoslavia, legato a doppio filo con il precedente conflitto in Kosovo del 1999.
Tuttavia, nel decennio successivo il paese sembrava aver trovato un equilibrio, sancito anche dagli accordi di Ohrid, che si è poi sempre più deteriorato negli ultimi anni, in particolare durante l’ultimo decennio di governo autoritario del VMRO.
Oggi la Macedonia è prostrata dalla povertà, sfiduciata dalla politica, impaurita dalle voci di una possibile escalation del conflitto.
Un decennio fa sperava di entrare nell’Unione europea, per la cui adesione aveva ottenuto lo status di candidato nel lontano 2005, ma i negoziati non sono mai stati aperti perché la Grecia si è sempre opposta all’utilizzo del nome Macedonia – il paese si chiama ufficialmente FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia) – e pare tramontata qualsiasi prospettiva con la crisi dell’allargamento ai Balcani occidentali.
Così Skopje ha sempre più cercato un partner a Est, guardando verso Mosca, alla quale la legherebbe una fratellanza ortodossa e costruendo un’identità etnonazionale sempre più pervasiva.
E come spesso è accaduto, in particolare nell’area, gli spazi di frizione tra sfere di influenze sembrano risentire delle tensioni provenienti da altri centri.