Tasse e voodoo, la ricetta economica di Donald Trump

Per i suoi primi 100 giorni di presidenza, Donald Trump ha annunciato un ambiziosissimo piano di tagli fiscali. I rischi che le conseguenze siano addirittura peggiori rispetto a quelle delle politiche di Reagan non sono trascurabili

Di Clara Capelli

Per i primi 100 giorni della sua presidenza, Donald Trump ha voluto ribadire che manterrà una delle promesse chiave della sua campagna elettorale: un drastico, ambizioso e controverso taglio del carico fiscale su redditi personali e d’impresa. Al momento la riforma è stata presentata il 26 aprile in forma preliminare, un foglio A4 diviso in 3 sezioni (obiettivi, redditi personali, redditi d’impresa) articolate in elenchi puntati.

“Audace quanto vago” è stato il commento di Bloomberg, che pur favorevole ad alleggerimenti e semplificazioni non ha lesinato critiche sulla mancanza di dettagli, in particolare sul rischio che la copertura della riforma – stimata a 7 trilioni di dollari su un decennio dal think tank Tax Policy Center – richieda un più che significativo aumento del debito pubblico. “Un dono fiscalmente irresponsabilmente ai plutocrati” è stato il durissimo commento del New Yorker, che come il New York Times nutre forti dubbi sul fatto che questa misura possa andare a vantaggio delle classe media, quanto piuttosto delle classi più ricche e delle grandi multinazionali.

Stiamo cercando di rimettere reddito nelle tasse dei consumatori americani. Vogliamo eliminare Washington dall’equazione. Vogliamo che la gente possa tenere per sé una parte maggiore del reddito che si guadagna così duramente”, così dichiarava Gary Cohn, Chief Economic Advisor di Trump, ai microfoni di Fox News. “La riforma si pagherà da sé con la crescita economica”, è stato il commento di Steve Mnuchin, Segretario del Tesoro e secondo molti principale ideatore di quella che viene descritta come “la più grande riforma di tagli fiscali della storia americana”, addirittura di portata superiore a quella promossa da Reagan negli anni Ottanta.

Nel 1974, durante una cena, l’economista della University of Southern California Artur Laffer spiegò la sua posizione in materia di tasse a due commensali scarabocchiando su un tovagliolo una curva a campana.

I due commensali si chiamavano Donald Rumsfeld e Dick Cheney, succedutisi al ruolo di Capo di Gabinetto della presidenza Ford, uno dei capitoli più bui nella storia dell’economia americana del secondo dopoguerra. Servivano idee nuove per rilanciare la crescita e la creazione di impiego.

Secondo Laffer e la curva che successivamente prenderà il suo nome, in un primo momento le entrate fiscale crescono quando l’aliquota diventa più alta, ma oltre un certo livello questa diventa così gravosa da scoraggiare l’attività economica, generando effetti depressivi che riducono progressivamente il gettito fiscale. Semplice, accattivante, intuitivo. E rivoluzionario, perché completamente in controtendenza rispetto alle teorie keynesiane ancora in voga all’epoca.
Erano gli anni in cui si andava affermando la supply-side economics, che vede nella produzione e non nella domanda il motore dell’economia: elimina qualunque disincentivo alla prima e l’economia prospererà, creando così la propria domanda.

Il trionfo di questa teoria si avrà con l’elezione di Reagan nel 1981 e l’approvazione dell’Economic Recovery Tax Act (anche noto come ERTA o Kemp-Roth Tax Cut), un programma di massici tagli alle tasse. Un trionfo non completamente sostenuto nemmeno dal Partito Repubblicano stesso, tanto che addirittura George Bush, avversario di Reagan, la liquidò come “voodoo economics” in un celebre discorso del 1980.

La storia di Reagan e della Reaganomics la conosciamo bene. Laffer fu uno dei suoi consiglieri più importanti, ispiratore dell’ERTA e del Tax Reform Act del 1986, che prevedeva in buona sostanza una serie di semplificazioni alla legislazione fiscale.

L’economia americana si riprese rapidamente e tra il 1982 e il 1989 registrò tassi di crescita tra il 3,5% e il 4,5%. Tutto merito della Reaganomics? La conferma della validità del trickle-down effect, caposaldo della supply-side economics, per il quale vantaggi elargiti alle fasce più abbienti di un’economia innescano meccanismi di crescita che finiscono per avvantaggiare tutti i membri di un sistema? Le opinioni divergono. Paul Krugman, strenuo oppositore di Trump, ha più volte ribadito dalle colonne del New York Times che la ripresa nel 1982 fu resa possibile dalle politiche espansive della FED e non per i tagli fiscali; Bill Clinton aumentò le tasse e il boom degli anni Novanta non ne risentì, mentre i tagli approvati da George W. Bush non portarono ad alcun miracolo.

Dall’altra parte, la crescita degli anni Ottanta si accompagna a radicali cambiamenti dell’economia, con l’affermarsi di un nuovo ceto urbano legato al mondo dei servizi e della finanza (il film Wall Street è del 1987) e l’inizio di un processo di deindustrializzazione che cambierà il volto sociale delle zone riconosciute essere il bacino elettorale di Trump.

Se il tasso di disoccupazione si riduce di oltre 3 punti percentuali (dall’8,5% al 5,4%, dati del Bureau of Labour Statistics), la presidenza Reagan (1981-1989) vede tuttavia un aumento di oltre il 10% dell’indice Gini sulla disuguaglianza di reddito disponibile, che passa dallo 0,315 allo 0,348 (dati OCSE), cosa che avrebbe dovuto smorzare gli entusiasmi di quanti si erano lasciati sedurre dalle sirene del trickle-down effect.

Sono trascorsi 43 anni dalla curva di Laffer, molte ricerche teoriche ed empiriche l’hanno criticata e ne hanno smentito la fondatezza, eppure ancora forti sono le voci che simpatizzano per politiche ispirate a queste idee. Donald Trump, figlio di un investitore immobiliare, non poteva che abbracciarle. Lo stesso vale per Cohn e Mnuchin, ex figure di spicco di Goldman Sachs. Ma se “la più grande riforma di tagli fiscali della storia americana” vedrà la luce – questo solo il tempo potrà dirlo, perché lo stesso Partito Repubblicano nutre non poche perplessità – le ripercussioni sull’economia americana non saranno per nulla trascurabili.

In primo luogo, come tanti critici di Trump hanno fatto notare, sebbene la corporate tax federale negli Stati Uniti sia fra le più elevate al mondo (35%, oltre a un’aliquota aggiuntiva applicata dai governi locali in media intorno al 4%), varie scappatoie fiscali dell’ordinamento fiscale americano fanno sì che l’aliquota effettiva si attesti tra il 19 e il 21 % a seconda delle stime.

Senza contare l’evasione fiscale e il ricorso a paradisi fiscali– un problema anche per l’economia a stelle e strisce, tanto che Trump prevede di adottare dei condoni per il rimpatrio di questi capitali –, che il sito Vox riporta attestarsi intorno ai 2,6 trilioni di dollari. Abbassare la corporate tax al 15% dunque andrà sì a vantaggio del business americano, ma meno incisivamente rispetto a quanto un’analisi superficiale possa suggerire.

Inoltre, Trump intende ridurre da 7 a 3 il numero delle aliquote sui redditi personali, 10%, 25% e 35% (il massimo al momento è 39,6%), Oltre al fatto che non sia al momento chiaro a quali aliquote saranno assegnati i redditi intermedi tra l’imponibile del 10% e del 35% (la middle class per la quale Trump ha giurato di battersi), diversi economisti temono che i redditi più elevati potrebbero ricorrere allo stratagemma di creare delle società a loro nome per poter beneficiare della corporate tax del 15%, cosa che potrebbe con ogni probabilità ridurre ulteriormente le entrate per il fisco americano.

La riforma fiscale di Trump si propone dunque di risolvere un problema che di fatto viene già aggirato da società e contribuenti e presenta numerosi punti di domanda sulle modalità della sua attuazione e sulla sua copertura economica.

Che la crescita “ripaghi tutto” come promette Mnuchin è tutt’altro che scontato. Sorvolando sugli enormi problemi distributivi che i tagli fiscali previsti pongono, la curva di Laffer con la trickle-down economics riposano sulla convinzione – non comprovata scientificamente – che un imprenditore meno gravato dalle tasse userà i soldi salvati dalla fauci del Fisco per investire e creare posti di lavoro, che a loro volta rilanceranno i consumi creando un circolo virtuoso. E ciò non è assolutamente automatico, anzi.

Nell’era della finanziarizzazione questa convinzione diventa ancora più debole; la recente letteratura economica dimostra infatti come questo denaro potrebbe più facilmente essere dirottato su prodotti finanziari che non in attività meno liquide come quelle industriali – specialmente considerata la situazione economica internazionale del momento.

I capitalisti possono avversare altri capitalisti ed élite ostili, ma difficilmente si schierano contro il capitalismo in sé, questo era chiaro già dalla campagna elettorale di Trump.

E ai suoi oppositori non resta che trovare una convincente risposta per contrastare la sua economia “voodoo” se questa sarà applicata secondo gli annunci, perché quando gli incantesimi creati dagli sgravi fiscali si saranno esauriti, i mostri che le conseguenze socio-economiche potranno creare non saranno facili da affrontare.

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