Le elezioni in Iran e la ricostruzione di un immaginario popolare di rivoluzione e guerra

L’analisi di Paola Rivetti tra cinema, librerie e musei, alla vigilia del voto iraniano

di Paola Rivetti, tratto da Lavoro Culturale

La Repubblica Islamica si avvicina alle prossime elezioni presidenziali e locali con poco entusiasmo. Il dibattito pubblico si è concentrato recentemente sulla figura dell’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, raggiungendo per adesso il proprio apice. Ma nonostante il clima stanco prima del rush finale, è significativo che proprio in queste settimane sia avvenuto il lancio del film Majray nimruz (Avventura a mezzogiorno).

A ridosso delle elezioni, che costituiscono un rito di importanza fondamentale per il rinnovamento della legittimità delle istituzioni, l’opera di Mohammad Hossein Mahdavian propone una lettura della storia della Repubblica Islamica che mira a rafforzarne le radici “idealiste” e fondamentalmente “giuste”, pur mettendone in luce alcune problematicità.

I personaggi del film non sono degli eroi “piatti”, bensì “umani”, con luci e ombre. Proprio per questo, ancora più eroici.

Il film di Mahdavian si inserisce in un recente rinnovamento culturale che ha portato nel cinema e, più in generale nella sfera pubblica, prodotti e iniziative volti a ricostruire un’immagine “bipartisan” delle origini della Repubblica Islamica, che affondano nella rivoluzione e nella guerra con l’Iraq (1980-88).

Non si tratta di prodotti culturali di grossolana propaganda, ma della costruzione di un immaginario che possa essere condiviso dal più ampio numero possibile di persone, a cavallo di classe sociale, livello di istruzione e orientamento politico, costruendo quindi una narrazione storica e politica di riferimento per tutti e tutte.

Esempi di questo sforzo non si trovano solo nel film di Mahdavian, ma anche nel rinnovamento della farhang-e paydari, ovvero della cultura del fronte o della guerra, con la rivisitazione dei metodi di divulgazione dei riferimenti politico-religiosi che l’accompagna. Per molto tempo, essa è stata appannaggio delle forze politiche più conservatrici, che tendevano a monopolizzarne l’esperienza storica e il significato politico per rivendicare la propria purezza e adesione entusiasta, nonostante i decenni, al progetto originale della Repubblica Islamica.

Una semplice visita alle librerie di recente apertura a Teheran, come quelle del gruppo editoriale Soore Mehr, lo conferma. Queste librerie sono arredate con gusto e dotate di caffetteria dove ragazzi e ragazze si intrattengono. Esse, tra le biografie dei martiri e dei comandanti pasdaran più celebri, come Qassem Sulemaini (“eroe” della guerra contro Daesh in Iraq, soprannominato “Supermani” proprio per la sua fama di guerriero imbattibile, fotografato sempre in pose esaltanti la sua bellezza e la sua forza calma), e tra i libri dei detti della guida suprema Khamenei e di altre autorità religiose, offrono a visitatori e potenziali acquirenti riproduzioni molto raffinate dei simboli classici legati alla nozione del martirio (shohadat) e, in generale, all’arte di guerra.

Tulipani, colombe e farfalle sono tra gli oggetti più ricorrenti, affiancati da CD di musica tradizionale e articoli di artigianato come borse e ceramiche. La cultura del fronte, insomma, un tempo legata a un immaginario di sangue e polvere riservato a pochi uomini dotati di una volontà superiore, è diventata “chic” e per questo più attraente, ponendo le basi per una sua più ampia condivisione, rafforzando al contempo il mito fondativo delle origini e della rivoluzione.

Il film di Mahdavian è stato accolto con grande favore dal pubblico. Durante un soggiorno a Teheran nell’aprile 2017, ho potuto rendermi conto che il film era in programmazione in quasi tutti i cinema del centro e della parte nord della città, rimanendo in cartellone per settimane. Attirata dalla locandina e dal tema del film, sono andata per due sere consecutive a vederlo: la sala era piena in entrambe le serate e il pubblico misto dal punto di vista sociale.

Marjay nimruz racconta di una squadra speciale che nel 1981 si forma all’interno della sezione dei servizi segreti del sepah-e pasdaran, ovvero dell’esercito, allora appena formatosi, delle guardie rivoluzionarie, con lo scopo di catturare il nemico numero uno dell’appena nata Repubblica Islamica: Masoud Rajavi, capo dell’organizzazione dei Mojaheddin-e Khalq (MEK). L’ambientazione è piuttosto credibile e il film è incardinato su alcuni eventi chiave, dando l’impressione di aderire con rigore filologico agli avvenimenti storici.

La squadra è composta da cinque personaggi, tutti estremamente umani: piangono, si commuovono e trovano rifugio dalla violenza del momento storico nella preghiera. Due personaggi sono, a mio parere, particolarmente interessanti: Hamed e Kamal, che rappresentano la purezza delle origini della Repubblica Islamica.

Hamed è il più giovane del gruppo, è entusiasta e si innamora di una ragazza, Farideh, che fa parte dei MEK con il nome fittizio di Soheila. Farideh è il solo personaggio femminile che ci accompagna nel corso del film, ed è rappresentata come una persona da salvare. Hamed parla spesso di lei, dicendo appunto che «può essere salvata, è una brava ragazza, mahzabi», ovvero religiosa, quindi meritevole di salvezza, riducendo così la sua forte personalità (Farideh ha un ruolo importante nell’organizzazione) a un “canone accettabile”.

I personaggi si muovono in contesti abitati esclusivamente da uomini, in linea con l’immaginario prevalente legato alla guerra e alla lotta rivoluzionaria, riducendo a invisibilità i milioni di donne che, proprio in contemporanea agli eventi narrati dal film, si battevano contro le misure discriminatorie adottate dal nuovo regime.

Kamal è l’altra personificazione della purezza. Di servizio al fronte, dove partecipa alla guerra contro l’Iraq appena iniziata, tornerà a Teheran per combattere “la guerra interna” contro la “quinta colonna”, ovvero le forze anti-rivoluzionarie dei MEK. Kamal è un uomo di azione, poco avvezzo a strategie e a seguire le regole; un uomo puro e buono che dice ciò che pensa e che è leale, fino in fondo, al gruppo. Non è un caso che le poche scene dove sono presenti dei bambini, simbolo di innocenza, includano anche Kamal e Hamed.

Ogni personaggio incarna un aspetto della Repubblica Islamica, e Rahim, il comandante della squadra, ne rappresenta il lato “istituzionale”: è il più alto in grado, è la connessione con le élites rivoluzionarie e lo vediamo infatti spesso impegnato in riunioni e colloqui con i suoi superiori, che sono personaggi storici importanti. Tuttavia, Rahim non ha nulla del gretto burocrate, anzi. È un capo democratico, prende numerose decisioni sbagliate e ammette i propri errori.

A fargli da contro-altare, il regista inserisce il pubblico ministero e direttore di carcere Assadollah Lajevardi, che torturò migliaia di detenuti politici negli anni Ottanta, assassinato poi proprio dai MEK nel 1998. Mahdavian qui crea una contrapposizione tra la squadra e gli ideali che la animano, e il dogmatismo di Lajevardi e, per estensione, di alcuni individui, o forse frange, della Repubblica Islamica, implicitamente riconoscendo la violenza che venne perpetrata negli anni Ottanta e successivamente.

Il film di Mahdavian è una operazione ideologica raffinata e ben riuscita, a differenza di altre meno credibili, pur rilevanti per i loro risvolti ideologici. Ne è un esempio il mastodontico Museo della sacra difesa (Muze defae’ moqaddas, dedicato alla guerra Iran-Iraq), comprendente un parco, con armi esibite (missili balistici a gittata variabile, carri armati, navi da guerra) e diversi padiglioni, dove vi sono riproduzioni in scala reale di quartieri di città bombardate, bunker, raffinerie, camere per la simulazione di attacchi aerei.

Lo sforzo è quello di produrre una narrativa circa la guerra, o “guerra imposta”, come espressione di resistenza e difesa. Parte di tale sforzo è quello di rappresentare, ad esempio, i caduti, o martiri, come uomini pii, con caratteristiche quali «pregava di notte», «aiutava gli oppressi» oppure «recitava il Corano», come indicato nei pannelli esplicativi.

Questo tipo di linguaggio artefatto è presente nel corso di tutta la vasta esposizione. Nel caso dell’ala “soldati che sorridono”, ad esempio, l’audioguida recita che nelle fotografie esposte «i sorrisi sono la prova dell’entusiasta adesione all’Islam» dei militi. Anche per quello che riguarda la presenza delle donne nel museo, l’audioguida recita che la popolazione femminile iraniana, sebbene abbia partecipato alla vita al fronte in qualità di cuoche e di infermiere, ha contribuito soprattutto grazie alle madri e alle mogli che hanno dato i propri affetti più cari all’Islam, «il sacrificio più alto che esse potessero fare», dice l’audioguida. A questo proposito, l’audioguida poi precisa che anche le preghiere di queste hanno avuto un ruolo fondamentale nel sostenere gli uomini al fronte.

Stupita dalla semplicità del messaggio offerto dall’audioguida, nel corso delle mie visite nel 2016 e nel 2017, ho chiesto di poter visitare il museo accompagnata da due guide in persona. Oltre ad aver condiviso i loro ricordi personali della guerra, dai programmi disponibili in televisione al periodo in cui Teheran era bombardata, entrambe hanno espresso contrarietà verso una serie di politiche (dall’hejab obbligatorio, alla generale “pressione politica” esercitata sulla popolazione) caratteristiche della Repubblica Islamica, e si sono lamentate dell’uso strumentale della religione, utilizzata dalle autorità per legittimare posizioni eticamente “sbagliate”.

Non si tratta della messa in discussione del messaggio generale del museo, imperniato sulla rappresentazione dell’Iran come una nazione e una popolazione ferventemente religiose e in resistenza, ieri come oggi; e nemmeno si tratta di una critica femminista all’esposizione, contando che una delle mie guide, una giovane donna, ha voluto saltare la parte dedicata al contributo delle donne dicendo che esso “non è poi così importante”.

Si tratta invece di una critica alla trivializzazione dei riferimenti politico-religiosi legati sia all’esperienza della guerra che all’ideale della resistenza. Anche il museo, come il film, contribuisce a creare una narrativa intorno alla guerra e alla rivoluzione che vuole essere nazional-popolare, reificando il mito “idealista” delle origini. Tuttavia, a differenza del museo, il film è in grado di trasmettere tale messaggio in un linguaggio credibile, non artefatto né manieroso.

In un clima caratterizzato da una crescente sfiducia e disillusione, il film di Mahdvian (e in parte anche il museo) ricorda che, prima di tramutarsi in distopia, la rivoluzione e la Repubblica Islamica sono state di ispirazione a uomini che si sono battuti per un ideale.

L’idealismo contrasta con l’opportunismo che sembra, secondo un’opinione diffusa vista con preoccupazione da parte dell’elite al governo, caratterizzare la politica istituzionale. Il film e il museo rispondono quindi a ciò che sembra essere la necessità di rinsaldare il legame tra le istituzioni della vita politica, tra cui ovviamente ci sono le elezioni presidenziali, e la popolazione, e lo fa attraverso la rivisitazione delle origini e la reinvenzione del linguaggio e dell’immaginario utilizzati a scopo di propaganda.

A quasi quattro decenni dalla rivoluzione, e visti i drammatici cambiamenti sociali in atto e la precarietà che caratterizza la vita degli iraniani, sia per cause di politica ed economia domestica che internazionali, si tratta di una operazione necessaria per rinnovare il legame tra istituzioni e popolazione; con la speranza che si possa così motivare un qualche entusiasmo per le imminenti elezioni.