Il coraggio della libertà

Intervista alla giornalista Anna Pozzi, coautrice insieme a Blessing Okoedion di un libro sulla ribellione alla tratta del sesso

di Gabriella Grasso

“Penso che noi nigeriane dobbiamo cominciare a parlare. Di più. E a voce più alta. Ora so che non sono solo i soldi a dare potere. Ora credo anche nel potere della parola”. Blessing Okoedion, 31enne nigeriana fuggita da chi voleva costringerla a vendersi sulle strade italiane, le sue parole le ha affidate alla giornalista Anna Pozzi e insieme hanno firmato Il coraggio della libertà (Paoline, euro 13).

Non è la prima volta che una ragazza nigeriana vittima di sfruttamento sessuale si racconta: nel 2007 lo aveva già fatto, per esempio, Isoke Aikpitanyi insieme a Laura Maragnani in Le ragazze di Benin City (Melampo).

Isoke aveva parlato del rito voodoo (che in Nigeria si chiama juju) cui vengono sottoposte le donne prima della partenza e che diventa una gabbia mentale fortissima. Di cosa succede alla tua anima quando ti vendi su un marciapiede per giorni, mesi, anni. Delle maman che gestiscono con spietatezza il loro business di carne umana.

Quella di Blessing è una storia più recente (è arrivata in Italia nel 2013) ed è anche molto particolare. Perché lei è una laureata in informatica che aveva consapevolezza di quale mestiere attende le ragazze che partono clandestinamente dalla Nigeria: “Si sa che se uno va in Italia lo fa per la prostituzione. Ma non lo si dice”, racconta nel libro.

“A scuola, le ragazze che sono pigre o non vogliono studiare vengono chiamate italo o italian girls per insultarle o prenderle in giro”.

Nonostante ne fosse informata, quando una donna l’ha avvicinata fingendosi una devota cristiana desiderosa di aiutarla e le ha promesso un lavoro in Europa in un negozio di computer, Blessing ci ha creduto. Ed è partita.

Poco tempo dopo si è ritrovata trova sulla strada, a Castel Volturno. Ma l’incubo è durato solo quattro giorni. Blessing, con grande coraggio, si è rivolta alle forze dell’ordine ed è stata portata a Casa Rut, un centro di accoglienza. Ora lavora in Italia come mediatrice culturale, cercando di aiutare ragazze che, come lei, sono vittime di tratta.

Dell’argomento la giornalista Anna Pozzi si occupa da anni: ne ha scritto in Schiave (San Paolo) e Spezzare le catene (Rizzoli), entrambi firmati con suor Eugenia Bonetti.

Per questo ho deciso di incontrarla. Ma prima di riportare la nostra conversazione è importante elencare qualche dato che aiuti a inquadrare il fenomeno.

Primo: secondo l’Onu ogni anno circa 2 milioni e mezzo di persone sono vittime di traffico di esseri umani e riduzione in schiavitù e il 70% sono donne e bambini. Secondo: in Italia sarebbero dalle 30mila alle 50mila le donne, di cui circa la metà nigeriane, che vengono ridotte in schiave per la prostituzione. Terzo: secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni il numero di donne nigeriane arrivate in Italia nel 2016 si attesta sulle 11.000 (erano 1.400 nel 2014 e 5.600 nel 2015). Quarto: ogni mese nel nostro Paese vengono acquistati dai 9 ai 10 milioni di prestazioni sessuali.

Anna, quando hai iniziato a occuparti della tratta delle donne nigeriane?
«È un interesse che è nato all’interno del lavoro che conduco da anni sulle relazioni tra il continente africano e l’Europa. Nel 2006 sono entrata in contatto con suor Eugenia Bonetti, che dagli inizi degli anni 90 è attiva in questo campo. Va detto che si deve proprio al lavoro di pressione fatto dalle religiose, insieme a molte associazioni, il percorso legislativo che ha portato all’approvazione dell’articolo 18 del Decreto Legge del 1998 sull’immigrazione, che prevede un programma di protezione per le donne che abbandonano la prostituzione. Suor Eugenia stava organizzando un viaggio in Nigeria destinato al personale delle case di accoglienza che desideravano conoscere il background culturale delle ragazze con cui entravano in contatto, e io mi sono aggregata con una fotografa. Lì ho incontrato ragazze rientrate dall’Italia e altre che erano state sottratte alla tratta prima ancora di partire. E ho visitato gli shelter del Naptip, l’agenzia governativa che si occupa di traffico interno e internazionale di esseri umani».

Metà delle prostitute che lavorano in Italia viene dalla Nigeria: com’è iniziato questo fenomeno?

«Originariamente con la richiesta, dalle basi americane dell’area di Napoli e Caserta, di sesso a pagamento anglofono. Molti nigeriani che erano già in Italia hanno iniziato a far arrivare le loro connazionali, soprattutto da Benin City, e nel tempo si è costituita una sorta di filiera».
Blessing afferma che al suo Paese sia noto il motivo per cui le ragazze vengono fatte partire per Italia…
«Le informazioni circolano principalmente nelle grandi città, soprattutto a Benin City, ma non nei villaggi. È veramente difficile stabilire il grado di consapevolezza delle giovani che partono. Magari hanno sentito parlare della prostituzione, ma pensano che a loro non toccherà quel destino perché saranno più furbe. Moltissime non immaginano nemmeno che, per arrivare in Europa, dovranno attraversare il deserto e il mare. Spesso sono le famiglie che le spingono a partire. Un parente o un conoscente le abbaglia con la promessa di un futuro in Europa, e nessuno direbbe mai di no a una proposta simile. La comunicazione è tutta basata sull’ambiguità. Per esempio: i genitori delle ragazze che stanno in Italia sanno davvero che cosa sono costrette a fare? E se anche lo intuiscono, gliene importa davvero, considerato che grazie ai soldi che ricevono riescono a far sopravvivere il resto della famiglia?».

L’ambiguità è favorita dal fatto che chi emigra non racconta la verità su come vive qui?
«Sì. Nessuno restituisce un’immagine veritiera della propria vita in Italia. E ciò che non viene detto è come se non esistesse. Quindi, anche se molti sanno, il fatto che non se ne parli fa vivere nell’illusione che il problema non ci sia. D’altra parte quando una ragazza subisce certe cose, come fa a raccontarle in famiglia? Persino Blessing, che ha un padre straordinario, una figura di grande saggezza con cui lei ha un bel rapporto di intimità, non gli ha mai detto la verità».

Blessing torna spesso in Nigeria?
«C’è tornata poco tempo fa, dopo tre anni, insieme a me. Durante il soggiorno abbiamo approfittato di tutte le occasioni possibili per far conoscere la verità sulla tratta e incontrare le persone che, sul posto, fanno prevenzione. Ma anche per loro non è facile: l’anno scorso si è svolta una marcia a Benin City, tra gli organizzatori c’era anche il Naptip. Molte donne hanno aggredito e insultato i manifestanti, accusandoli di voler impedire alle loro figlie di partire e guadagnare. La verità è che queste giovani mandano a casa soldi con i quali si nutrono famiglie intere e si costruiscono case. E questo conviene a tutti».

Nel libro si mette in evidenza come la gioventù nigeriana sogni sempre più spesso la fuga…

«Sì, io stessa in Nigeria ho incontrato delle giovanissime, 15 o 16 anni, che mi hanno detto: “Che cosa studio a fare? Tanto qui per me non c’è futuro. Prima parto, meglio è”. La situazione economica nel Paese è davvero drammatica ed è andata peggiorando negli ultimi anni con il crollo del prezzo del petrolio, una delle voci principali nell’economia nazionale. Il governo, inoltre, ha dedicato ingenti somme di denaro alla lotta contro Boko Haram, distogliendole da quel poco che veniva fatto – pur in un contesto di corruzione diffusa – in termini di welfare e servizi. La condizione delle strade, per esempio, è terribile. E se un contadino non riesce a portare le proprie merci al mercato, finisce per sopravvivere a malapena con ciò che coltiva».

Il caso di Blessing è abbastanza peculiare. Cosa succede, mediamente, alle altre nigeriane vittime di tratta?
«Accade ciò che dice Blessing nel libro: alla fine si abituano. Non riescono nemmeno a concepire altre possibilità. Da una parte perché in effetti una vera alternativa non c’è. Ci sono ragazze che hanno lasciato la strada e fatto un percorso dentro le case di accoglienza, ma poi hanno trovato difficoltà enormi a inserirsi nel mercato lavoro. Qualcuna, davanti all’offerta di un impiego da badante – una vita di segregazione pagata 600 euro al mese – avendo magari figli a carico e con il peso psicologico di dover mandare i soldi a casa, ha calcolato che la stessa cifra poteva guadagnarla in una settimana o anche in tre giorni. Ed è tornata sulla strada. Dall’altra parte, ci sono donne che per scontare il debito contratto con la madam che si occupa di loro e le ha fatte arrivare in Italia (nel caso di Blessing era di 65mila euro!) restano sulla strada per così tanto tempo e vengono talmente abbrutite dall’esperienza, che alla fine si riciclano come sfruttatrici. Se per 6 o 8 anni vai in strada ogni giorno, vivi con una madam, frequenti con lei la chiesa pentecostale, mangi cibo africano, parli solo la tua lingua e gli unici italiani con cui entri in contatto sono i clienti perché ti viene inculcata la diffidenza nei confronti di tutti, è come se tu in Italia non ci fossi mai venuta. E poi il nostro è un Paese complesso nel quale abitare, perché devi gestire la ricerca di una casa e di un lavoro, le pratiche burocratiche… Finché sei con la madam, invece, si occupa di tutto lei. Ed è per questo che si tratta di una figura ambigua, che spesso le ragazze faticano a vedere come nemica. È angelo e diavolo: è la persona che ti sfrutta e ti picchia, ma anche quella che ti protegge dal resto del mondo, ti offre l’opportunità di stare in Italia, si occupa dei tuoi figli, se ne hai. Così quando hanno estinto il debito, molte ragazze diventano sfruttatrici a loro volta. In qualche caso fortunato trovano un marito che si occupa di loro, ma capita anche che sposino un nigeriano il quale, non trovando un impiego, le rimette sulla strada».

In un breve saggio alla fine del libro, tu inviti a focalizzare l’attenzione anche sulla clientela e citi il caso della Svezia dove nel 1999, insieme alla penalizzazione dell’acquisto di sesso a pagamento, è stato iniziato un lavoro di tipo culturale. Di che si tratta?
«In Svezia hanno lavorato sul tema delle pari opportunità partendo da due presupposti. Il primo: la prostituzione è una violenza sulle donne. Il secondo: una donna che si prostituisce lo fa molto probabilmente perché non ha avuto le giuste opportunità di accesso all’istruzione e al lavoro. Quindi occorre innanzitutto fornire strumenti concreti perché le donne possano avere le stesse possibilità degli uomini. Non bisogna dimenticare, però, che oggi quasi sempre dietro la prostituzione c’è la tratta, perché la maggior parte delle prostituite in Europa sono immigrate e quindi non libere».

La legalizzazione della prostituzione non aiuterebbe a ridurre il fenomeno della schiavitù?
«No. In Olanda o Germania la prostituzione è legale ma le donne sono quasi tutte immigrate, dunque vittima di tratta. Il fatto che siano registrate all’albo delle sex workers non cambia il fatto che debbano lavorare da schiave per restituire il debito contratto con le madam. Se poi vogliamo allargare il discorso, personalmente credo sia molto difficile considerare questo un mestiere come un altro. Tempo fa leggevo la storia di una donna tedesca che aveva scelto di prostituirsi in un momento di grave difficoltà economica. Aveva deciso lei, d’accordo: ma quello che ha vissuto, nella pratica, sono stati episodi di violenza, sopraffazione, abuso, umiliazione e mercificazione. Perché, comunque sia, tu diventi una merce e tra te e il cliente non esiste un rapporto paritario, ma di potere. E dopo che ci siamo battuti per decenni contro la disumanizzazione delle catene di montaggio nelle fabbriche, possiamo accettare la prostituzione? Non è disumanizzante dover sottostare a qualsiasi desiderio di una persona che usa il tuo corpo perché ti paga?».

I dati sul consumo di sesso a pagamento in Italia sono inquietanti.
«Si parla di 9/10 milioni di prestazioni sessuali acquistate ogni mese e si tratta di un dato realistico, dato che le donne che si prostituiscono sono circa 50mila e si calcola una media di 10 prestazioni al giorno per ciascuna di loro. È diventato un fenomeno di massa trasversale a ogni età e livello sociale: è difficile tracciare l’identikit del cliente tipo».

Come si caratterizza la prostituzione nigeriana in Italia rispetto, per esempio, a quella di donne che arrivano dall’Europa dell’Est?
«Si tratta di fenomeni diversi, che non si incrociano. Le differenti mafie straniere, in accordo con quelle italiane, fanno business su territori separati. Esiste una vera e propria geografia della prostituzione: a Milano, per esempio, le ragazze dell’Est, soprattutto quelle molto giovani, lavorano nelle zone centrali, poi man mano che ci si allontana dal centro si incontrano donne di altre provenienze. Le nigeriane, che costano meno, si trovano ai margini della città e lavorano sempre in strada».

Pensi che un libro come il vostro possa aiutare a salvare delle ragazze?
«Quando sono stata contattata da Suor Rita Giaretta, la responsabile di Casa Rut, un’associazione che da anni si occupa del fenomeno della tratta ed è diventata, nella zona del casertano, un punto di riferimento per le forze dell’ordine, la magistratura e la società civile, l’idea era semplicemente di scrivere la storia di Blessing perché ne rimanesse traccia. Quando poi ho incontrato Blessing mi sono resa conto che si trattava di una persona speciale, che ha fatto un grande lavoro su di sé per rielaborare ciò che le è accaduto, e insieme è nata l’idea di pubblicare il libro. Il mio obiettivo, però, non è quello di “salvare” qualcuno, anche perché spesso dietro l’idea del “salvataggio” si nasconde un senso di superiorità. Quello che mi interessa è che le persone guardino a queste ragazze in modo diverso. E che loro stesse aprano gli occhi rispetto alla propria condizione: comprendendo che sono delle vittime e che può esistere, anche per loro, la possibilità di un riscatto».