A route to connect, viaggio a ritroso lungo la Balkan route

Dalla Slovenia alla Croazia, profughi e attivisti resistono alla chiusura della fortezza Europa

Testo di Nerina Schiavo, foto di Ilaria Amadori

Quando mi metto in viaggio per Trieste, dove prenderò un autobus per Maribor, Slovenia, non so ancora bene a cosa vado incontro.

Il progetto di cui faccio parte, insieme ad altri 17 volontari, A route to connect, ci porterà dalla Slovenia alla Grecia, percorrendo a ritroso la Balkan route, un confine alla volta.

L’intento è studiare quello che sta succedendo ora, a due anni dall’apertura di questo corridoio. Ora che il transito dei migranti è bloccato.

Non si parla molto di Slovenia quando si parla di rotta balcanica. Forse perché i migranti che partivano dalle coste turche per risalire, pian piano, la rotta fino ai confini dell’UE quando era ancora possibile passare da uno stato all’altro, non vi si fermavano a lungo.

Adesso che i confini sono chiusi, solo una piccola parte di loro si trova in Slovenia. Si tratta perlopiù di persone ricollocate dalla Grecia, come ci racconta un rifugiato iracheno, studente in telecomunicazioni.

Lui come tanti altri non ha abbastanza soldi per pagare le cifre chieste dagli smugglers per superare i controlli e raggiungere il paese di loro scelta. La Slovenia difficilmente rientra tra le opzioni preferite dai rifugiati ed espresse nella richiesta ufficiale.

Nel suo caso, tra le 8 opzioni, la Slovenia non c’era affatto, ma alla fine è stato ricollocato a Maribor. Mi dice che ci sono anche molti eritrei che, sempre per lo stesso motivo, hanno dovuto accettare il ricollocamento, anche se la destinazione non rispondeva ai loro desideri.

Le persone sono molto gentili a Maribor e non pensa di provare a passare il confine per ora. Vuole ricominciare a studiare, mi racconta.

Chiacchieriamo nella sala di ROG, una fabbrica occupata di Lubiana. ROG, fino al 1991, era una fabbrica di biciclette.

Alcuni attivisti nel 2006 hanno deciso di forzare i lucchetti ed entrare; è nata così una nuova ROG, dove la sigla sta per Respect or go. ROG è sede di diversi studi artistici, mostre fotografiche e di arte contemporanea.

Ospita da anni film festival, concerti e uno svariato numero di eventi; da ultimo, il meeting del movimento Transnational Social Strike, durante il quale si è discusso di libertà di movimento e dei nessi tra lavoro migrante e precario.

Pare ci siano piani di rinnovamento della fabbrica autonoma, di proprietà della municipalità di Lubiana, per trasformarla nell’hub culturale ufficiale della capitale: gli attivisti e le attiviste di ROG perciò sono in costante allerta.

Negli ultimi 2 anni è nato un nuovo progetto: all’interno di uno degli edifici, è stata creata Second Home, una cucina e uno spazio familiare, dove chiunque si trovi in difficoltà può trovare un pasto caldo, una doccia e un posto dove dormire.

La cucina è gestita dallo chef Samir, un signore tunisino sulla cinquantina e da una miriade di aiutanti.

Il passaparola ha reso abbastanza conosciuto ROG e il progetto Second Home tra i rifugiati, che si ritrovano qui spesso. Fin dall’inizio dell’estate del 2015, gli attivisti e le attiviste si sono mosse per portare in macchina aiuti al confine con la Croazia, di fronte all’immobilità delle istituzioni.

ROG e tutta la comunità che gli ruota attorno e che lo mantiene vivo rappresentano una risposta positiva agli ultimi provvedimenti politici avviati dal governo sloveno, che ha emendato la normativa riguardante gli stranieri in senso molto più restrittivo.

Sarà possibile, attraverso le modifiche approvate, attivare, con una maggioranza semplice dell’Assemblea Nazionale, lo stato d’emergenza, nel momento in cui sopravvenga un vaghissimo pericolo per la sicurezza nazionale.

Sono state cancellate tutte le garanzie necessarie a misurare e valutare la proporzionalità e la necessità delle misure d’emergenza, attribuendo grandissimi poteri all’esecutivo.

Gli emendamenti si collocano nella cornice dei provvedimenti attuati da tutti gli altri stati della rotta. In particolare, gli emendamenti sloveni invaliderebbero l’accordo di riammissione con la Croazia, permettendo respingimenti e deportazioni dei migranti alla frontiera, senza prima avvisare le autorità croate, come previsto dall’accordo in questione.

Sono politiche del genere ad incrementare quell’effetto a catena che ha trasformato la rotta in una serie di stati prigione da dove è sempre più difficile uscire, se non attraverso gli strettissimi rubinetti dei ricollocamenti e delle altre scarse opportunità previste dalla normativa europea, molto spesso anche questa violata.

Da Lubiana prendiamo un treno per Zagreb. Al confine, 6 poliziotti iniziano a controllare i documenti dei passeggeri. Da qualche settimana i controlli sono diventati più accurati.

Nel nostro gruppo di volontari ci sono due rifugiati iracheni e una libanese. Nel loro caso la procedura dura di più, mentre il funzionario di polizia telefona a qualche superiore e inizia a fare controlli incrociati. Dopo mezz’ora ci muoviamo, siamo in Croazia.

A Zagreb siamo solo di passaggio, il tempo di una cena insieme ai volontari di Are you Syrious, l’organizzazione che da due anni a questa parte pubblica informazioni preziose sulla rotta e sui bisogni di chi la percorre, in modo da coordinare i volontari e la distribuzione degli aiuti.

I volontari si sono conosciuti, anche loro, nel 2015 quando, spontaneamente, tanta gente iniziò a caricare la macchina di tutti i beni ritenuti utili per chi era in viaggio.

Da quell’incontro è nato pian piano un sistema sempre più organizzato, all’interno del quale, però, continuano sempre tutti ad operare da volontari, nonostante da poco AYS sia registrato come ONG.

I volontari si occupano anche di monitorare le violazioni dei diritti dei migranti come nel caso dell’uso da parte delle autorità croate di informazioni classificate e quindi non contestabili davanti a un giudice sulla base delle quali viene negata la protezione ai richiedenti, considerati una minaccia alla sicurezza nazionale.

L’ultimo report di AYS parla di migranti picchiati e derubati, per poi essere respinti di nuovo in Serbia.

Ce lo confermano anche i ragazzi che incontriamo nelle jungles sorte intorno alla cittadina di Šid, a un passo dalla Croazia. Ma di questo parleremo più avanti, dopo aver passato il secondo confine, quello con la Serbia.

Salva