Sayed Kashua: una goccia nell’oceano

La produzione dello scrittore arabo-israeliano che contrasta la narrazione generalizzante del conflitto

di Francesco Petronella

Scontrarsi sempre senza incontrarsi mai: questa è la logica del conflitto. Una situazione che non lascia spazio a vie di mezzo, punti in comune e occasioni di mutua conoscenza che superino la logica del “muro contro muro”.

Sembra fin troppo chiaro che il conflitto israelo-palestinese rientra in maniera calzante in questo tipo di dinamica. Anzi, c’è di più e di peggio: quello tra Israele e Palestina finisce per rappresentare il conflitto per antonomasia, il conflitto con la “C” maiuscola, l’esempio lapalissiano di una pace impossibile, dell’assenza di dialogo.

E invece, inaspettatamente, i punti di intersezione sono tanti ed hanno bisogno di una narrazione che si occupi di loro.

Il leitmotiv dell’intera produzione di Sayed Kashua è proprio questo: creare una sorta di “terzo spazio” in cui poter narrare il fatto umano da una prospettiva quotidiana, dal basso. Nello specifico, raccontare la vita degli arabi e degli ebrei in Israele.

Questo permette di “ridicolizzare” la narrazione mediatizzata del conflitto che trascura la singolarità delle storie e spinge a ragionare per macro-categorie, assi geopolitici e ragioni di stato.

Meno conosciuto al pubblico italiano rispetto ad altri autori di prosa israeliani come David Grossman, Amos Oz ed Etgar Keret, Sayed Kashua è la personificazione stessa della possibilità di incontro tra gli attori in conflitto: uno dei più importanti scrittori in lingua ebraica viventi, ritenuto da alcuni il migliore in assoluto.

Eppure, strano a dirsi, è un arabo palestinese. Questo autore appartiene alla categoria degli “arabi israeliani”, una dicitura bizzarra ma in gran parte accettata da coloro che ne fanno parte. Si tratta degli arabi scampati alla Nakba e, quindi, cittadini dello stato ebraico.

Kashua nasce nel 1974 da una famiglia musulmana palestinese di Tira. Questa cittadina si trova in un’area d’Israele chiamata in arabo al-muthallath (il triangolo) che si distingue per la numerosa popolazione araba ivi residente.

Dopo aver ricevuto l’istruzione elementare sia in arabo che in ebraico, come molti degli scolari arabi in Israele, Kashua viene ammesso alla IASA (Israel Art and Science Academy), una scuola superiore per studenti particolarmente dotati, provenienti da tutta Israele.

Completati gli studi all’Università Ebraica di Gerusalemme, dimostra sin da giovane la sua innata abilità nella scrittura.

Negli anni esprime la sua poliedrica capacità narrativa e argomentativa attraverso le colonne del quotidiano israeliano Haaretz, per il quale scrive settimanalmente un editoriale dal tono umoristico in cui commenta i principali avvenimenti socio-politici israeliani.

Umorista per la carta stampata, Kashua si dedica anche a pregevoli prove letterarie; tutte scritte in lingua ebraica.

Il suo primo successo è il romanzo di formazione del 2002 Aravim Rokdim ossia “Arabi Danzanti” (edito in Italia da Guanda con la traduzione di Elena Loewenthal).

Sayed Kashua narra le vicende di un arabo, non dei territori ma cittadino israeliano. Il racconto, di matrice chiaramente autobiografica, parte dalla sua infanzia per seguirlo fino all’età adulta quando, sposato con una figlia, lavora in un locale notturno ma nutre ancora la speranza di carriere universitarie o politiche.

Eyad, questo è il nome del protagonista, è animato da un anelito di emulazione e assimilazione nel mondo ebraico e contemporaneamente da un’ansia di distacco dalla sua “arabità”.

Dal romanzo è stata tratta la sceneggiatura di un film per il cinema diretto da Eran Riklis, uscito nelle sale nel 2014.

Sulla stessa linea si orienta il romanzo del 2006 Va-yehi boker, tradotto in italiano da Elena Loewenthal con il titolo di “E fu mattina”, edito da Guanda.

In questo racconto, nel cui titolo riecheggia uno dei primi versetti della bibbia ebraica, si narra di un giovane giornalista arabo che, stanco del trantran quotidiano della capitale, ritorna nella sua città natale – un villaggio arabo in Israele – sperando di reclamare la semplicità della vita tra familiari.

Tuttavia il giovane scopre, suo malgrado, che a casa tutto è più piccolo: la gente stessa è piccola, ottusa e provinciale. Il suo senso di appartenenza, già fortemente in crisi, rischia di cedere definitivamente di fronte alle aspre dinamiche del conflitto.

La cittadina, infatti, viene accerchiata, senza preavviso né spiegazione, dai carrarmati israeliani e, quindi, tagliata fuori dal mondo. Mentre la situazione nel villaggio precipita, la paranoia prende rapidamente il sopravvento e frantuma il fragile equilibrio della comunità.

Nel 2010 Kashua pubblica il romanzo Guf shenì yahid (lett. “Seconda persona singolare”) tradotto in italiano da Elena Loewenthal ed edito da Neri Pozza nel 2013 col titolo di “Due in uno”.

Abbandonando parzialmente il filone autobiografico, l’autore realizza, probabilmente, il suo capolavoro. La vicenda si incentra su due storie parallele destinate ad incrociarsi.

La prima riguarda un rampante avvocato arabo di Gerusalemme, personaggio in cui il topos dell’ansia da assimilazione verso la cultura dominante ebraica raggiunge i suoi massimi.

L’uomo, infatti, appartiene di diritto all’upper class gerosolimitana: istruito, ricco, amante della bella vita, parla esclusivamente ebraico e cerca il più possibile di allontanarsi da quei tratti, volutamente stereotipati, che lo legano alla sua “arabità”.

Organizza cene a base di sushi, caviale e superalcolici; abita in via King David (cuore della parte ebraica di Gerusalemme), cerca il più possibile di dare un tono internazionale a se stesso, alla sua casa e alla sua famiglia.

Soprattutto tenta in tutti i modi di colmare le sue lacune sulla cultura e sulla letteratura occidentale acquistando morbosamente, in una libreria che vende usato, copie di classici europei segnalati nella sezione “Libri” del quotidiano Haaretz, che vanno da Calvino a Kafka, da Cechov a Dostoevskij.

L’intreccio si mette in moto quando l’anonimo avvocato acquista una copia usata della “Sonata a Kreutzer” di Lev Tolstoj.

Tra le pagine del libro, infatti, trova una lettera d’amore manoscritta in cui riconosce senza dubbio la grafia della moglie. Inizia ad indagare sul vecchio proprietario del volume che si firma “Yonatan”.

La seconda vicenda, inizialmente parallela a quella dell’avvocato, riguarda un assistente sociale di nome Amir. Giovane arabo squattrinato proveniente da un villaggio arabo in Israele, Amir convive con altri studenti e lavoratori palestinesi a Gerusalemme.

Si invaghisce di Layla, una giovane psicologa. Tuttavia, dopo aver collaborato con lei in un centro diurno per diversamente abili, prende servizio stabilmente presso un ragazzo ebreo in stato vegetativo di nome Yonatan.

I due diventano parte di un progressivo avvicinamento che gradualmente porta Amir ad assumere la personalità di Yonatan.

Coadiuvato dalla somiglianza fisica con il giovane allettato e grazie all’incomprensibile complicità della madre di Yonatan, Amir si spaccia per quest’ultimo per iscriversi alla prestigiosa accademia d’arte israeliana “Betzalel” e studiare fotografia.

Kashua ironizza sul fatto che, paradossalmente, avrebbe avuto qualche possibilità in più presentandosi da arabo poiché, essendo l’ateneo schierato su posizioni di sinistra (radical chic direbbe quacuno in Italia), favorisce le iscrizioni da parte di studenti arabi piuttosto che ebrei.

Il furto di personalità raggiunge il parossismo quando Yonatan muore e viene sepolto col nome di Amir mentre quest’ultimo, invece, eredita definitivamente la sua identità ebraica.

L’intreccio si scioglie quando l’avvocato risale ad Amir-Yonatan e spiattella la verità in faccia alla moglie (Layla).

Dopo aver pensato di rivolgersi ad un tribunale sciaraitico per ripudiarla, ritrovando opportunisticamente quel senso di appartenenza al milieu arabo-islamico che cercava in tutti i modi di nascondere, l’avvocato decide di credere alla versione dei fatti della moglie: Amir-Yonatan è semplicemente un vecchio collega che l’aveva invitata ad uscire (con quel biglietto galeotto) ma con cui non c’era mai stato nulla.

Il libro si chiude con l’avvocato che, tra le foto esposte in una mostra degli studenti di Betzalel, scorge l’immagine di una donna nuda di spalle, opera di un certo Yonatan, che giurerebbe essere sua moglie!

La grandezza di Sayed Kashua risiede nella sua capacità di scandagliare e problematizzare la questione identitaria, raccontandola in maniera quotidiana, frizzante e scanzonata ma non per questo superficiale.

Oltre che nei suoi romanzi quest’operazione di “degeneralizzazione” è evidente nella serie TV Avodà Aravìt (in arabo Shughl Arab, ossia “Lavoro Arabo”) in onda sulla rete israeliana Channel 2 dal 2007 ed ancora in trasmissione.

La serie è incentrata sulle vicende di una famiglia araba di Gerusalemme. Il protagonista dello sceneggiato è Amjad ‘Eliyān, giornalista di una testata locale (verosimilmente Haaretz), la moglie Bushra, la figlia Maya ed i genitori Isma’il (Abu Amjad) e Alham (Umm Amjad).

Personaggi esterni al nucleo famigliare, ma centrali nella storia, sono Me’ir, fotogiornalista ebreo collega di Amjad, e Amal, una giovane avvocatessa araba di cui Meir è infatuato.

Nella sitcom, che ha ottenuto diversi riconoscimenti per la qualità del prodotto, Kashua «[…] È riuscito a barcamenarsi tra le barriere culturali e a portare un punto di vista arabo nel intrattenimento mainstream israeliano» per usare le parole del New York Times.

La narrazione, veicolata in un continuo code-switching tra arabo ed ebraico, mescola e ridicolizza certi stereotipi appartenenti sia agli ebrei che agli arabi in Israele per cercare di smascherarne l’insensatezza.

Ad esempio Umm Amjad, come anche le madri arabe dei romanzi di Kashua, assume i connotati della madre premurosa e onnipresente tipici della Yiddish Mamale, ossia della “mamma ebrea” sulla quale l’umorismo ebraico ha costruito tanta della sua narrativa. Quasi a dire che, ebrea o araba che sia, la mamma è sempre la mamma.

Scene grottesche ed esilaranti sono quelle che riguardano il povero Amjad che, pressato dalla cultura dominante israeliana, le tenta tutte pur di essere accettato nei contesti in cui vive le sue giornate, dal lavoro alla semplice convivenza condominiale.

Nella seconda serie, ad esempio, Amjad decide di lasciare Gerusalemme Est e di trasferirsi nel quartiere residenziale di Rehavia (piena Gerusalemme Ovest).

Questa decisione, che ricalca i trascorsi biografici dell’autore, è dettata dal fatto che l’approvvigionamento idrico dei quartieri arabi della città è scadente e la pressione nelle tubature molto bassa.

Per convincere la moglie Bushra, riluttante all’idea di spostarsi per paura di compromettere il senso d’identità dei figli, Amjad chiede esplicitamente al proprietario della casa che intende acquistare di concedere a sua moglie una “doccia dimostrativa” nell’appartamento.

Sopraffatta dallo scrosciante getto di acqua calda sui capelli e sul corpo nudo, col volto in estasi, Bushra grida attraverso la porta del bagno “Amjad! Penso che possiamo superare il problema dell’identità dei nostri figli!” (Traduzione mia).

Per farsi accettare dagli inquilini ebrei del nuovo condominio Amjad fa il diavolo a quattro. Scambiato inizialmente per un addetto alle pulizie (e questo la dice lunga su quanto certe professioni siano tipicamente svolte da arabi), il giornalista offre cioccolata a tutti gli abitanti dell’edificio ed incarica suo padre di comprare un quadro con cui abbellire l’ingresso del palazzo.

Un operaio della ditta di traslochi lo ha persuaso, infatti, che è usanza tra gli ebrei portare un dono agli abitanti del posto in cui si va a vivere.

Organizzata una piccola cerimonia per l’affissione dell’opera d’arte, Amjad non scarta l’involucro di cui è coperto il quadro e lo scopre direttamente davanti ai condomini.

Suo malgrado, il malcapitato si accorge che Abu Amjad ha scelto una tela raffigurante la Cupola Della Roccia, il simbolo per eccellenza della Gerusalemme araba, il terzo luogo più sacro dell’Islam, l’apoteosi simbologica della resistenza palestinese.

Le reazioni sono sguardi esterrefatti e svenimenti incontrollati. Questa ridicolizzazione, come già detto, non è fine a se stessa. Kashua muove un’aspra critica a quella che egli stesso definisce “israelizzazione distorta”.

Se la cultura dominante israeliana impone l’accettazione di certi canoni di appartenenza, così gli arabi in Israele finiscono, purtroppo, per introiettare tali modelli.

Amjad è l’esempio plastico di questo tipo di dinamica: arabo di nazionalità ed israeliano di cittadinanza, costretto a negoziare tra questi due elementi per sopravvivere nella complessa società gerosolimitana.

Ma tale negoziazione è possibile? Gli avvenimenti riguardanti la vita privata di Sayed Kashua sembrano dire il contrario. Il 2014 rappresenta l’annus terribilis nella storia dell’autore.

A seguito del pesante spostamento a destra degli equilibri politici del paese e, soprattutto, dopo l’operazione “Margine protettivo” contro la striscia di Gaza (il bilancio globale è di più di 2000 palestinesi morti), Kashua decide di lasciare Israele insieme alla sua famiglia.

In un accorato e terribile articolo su Haaretz del 4 luglio 2014 (http://www.haaretz.com/blogs/sayed-kashua/.premium-1.602869?=&ts=_1495701394644) Kashua prende coscienza del proprio fallimento e di quanto l’idea di coesistenza pacifica che aveva sempre sostenuto e portato avanti sia null’altro che una pia illusione.

Coi bagagli già imballati aspetta il ritorno dei figli per tornare a Tira e, da lì, partire negli USA.

Seduto accanto alla figlia maggiore rimugina per iscritto: «I was silent, knowing that my attempt at living together with others in this country was over. That the lie I’d told my children about a future in which Arabs and Jews share the country equally was over».

Negli USA, dove ricopre incarichi nelle università, Kashua prevede di iniziare definitivamente a scrivere in inglese abbandonando l’ebraico.

Si chiede, infatti, quale ebreofono potrebbe aver voglia di leggere i suoi scritti dal momento che la situazione è caduta così in basso. Anzi, l’autore finisce per chiedersi: perché continuare a scrivere?

Con il sarcasmo che lo contraddistingue da sempre, Kashua afferma di non disdegnare un futuro da tassista o da cleaner negli Stati Uniti. Perché no?

La sua ultima opera, pubblicata nel 2016 col titolo di Native: Dispatches from an Israeli-Palestinian Life, è una raccolta di articoli in inglese in cui commenta gli ultimi risvolti socio-politici del paese in cui non vive più ed in cui, probabilmente, non tornerà più.

Ironico e tagliente come sempre, risponde così in una recente intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica: «Ora vive nell’America di Trump […] Dalla padella alla brace?»

«Ma perché mai! Sono felice che sia arrivato Trump. Già cominciavo a temere di perdere le mie paranoie da perseguitato, le mie angosce politiche, il mio senso dello humour. Temevo di annoiarmi. Ora invece quel che dice Trump, il modo in cui lo dice, mi fanno sentire quasi tornato a casa. Cominciavo ad avere nostalgia del modo di esprimersi di Netanyahu e degli ultrà…».

Una causa persa: questo vede alle sue spalle il Sayed Kashua emigrato negli States che, durante una conferenza allo Stroum Center for Jewish Studies della University of Washington, dichiara laconicamente: «Ero solito pensare di poter cambiare le cose con la scrittura e la cultura, creando questa sorta di “terzo spazio” in cui la gente può trovare un linguaggio diverso e vivere insieme.

Ma devo ammettere che non è il momento giusto. I media e le serie TV come “Lavoro arabo” possono cambiare le cose, ma per ora rimangono solo una goccia nell’oceano.» (Traduzione di Francesco Petronella)