Versailles: L’architettura del Potere

La serie Versailles e i parallelismi con la contemporaneità della Francia odierna

di Carlo Comanducci, da Parigi

“L’affabulation, c’est l’histoire
La continuité, c’est la France”
Sacha Guitry, Si Versailles m’était conté, 1954.

La seconda stagione della serie Canal+ Versailles è andata in onda durante la campagna elettorale per le presidenziali Francesi e, per diverse ragioni, invita ad una lettura in parallelo.

Vari elementi della trama, della rappresentazione di Louis XIV e del potere assoluto, infatti, si accordano alle diverse caratteristiche di quelli che sono poi diventati i due candidati in lotta al secondo turno: da un lato, la celebrazione della monarchia e di Versailles come culla di Francia è coerente con il romanzo nazionale identitario del FN; dall’altro, la rappresentazione di Louis XIV come un giovane altoborghese parigino con un lavoro nel management creativo, belloccio, “anti-establishment”, visionario ma pragmatista, sembra ora aver anticipato di quasi due anni (la prima stagione è del 2015) l’immagine di Macron.

Altre caratteristiche, invece, si adattano ad entrambi i candidati, come la celebrazione del polso fermo del sovrano, una incongrua lettura “democratica” dell’assolutismo e l’enfasi data alle questioni di sicurezza.

Versailles è stata girata in inglese (la honte!) e la prima stagione da sola è stata prodotta con un budget record di 24 milioni di euro, spesi in locations (Versailles, ovviamente, e una collezione di altri castelli del XVII secolo), costumi, e un cast da passerella, sul quale troneggia il londinese George Blagden che, dopo il monaco rinnegato Athelstan in Vikings e un Louis XIV metrosexual, sarebbe a mio parere un ottimo San Francesco delirante per questi tempi di ipocrisia mai morta e rinnovato fervore.

Diverse incongruenze storiche sono state notate, ma nel complesso la serie non è così infedele al suo soggetto da apparire chiaramente come un’opera di finzione.
Dove è meno accurata, anzi, platealmente ideologica, è nell’interpretazione che dà del potere e nell’accettazione acritica dei suoi dispositivi spettacolari. In due parole, Versailles dà una rappresentazione del regno di Louis XIV che Louis XIV avrebbe apprezzato.

La serie nel suo complesso invita a tradurre l’assolutismo autocratico di Louis XIV (lo Stato sono io), che in realtà era prima di tutto una questione di centralizzazione istituzionale contro le autonomie nobiliari, l’indipendenza delle burocrazie statali e le reti di potere informale dei ministri, in un assolutismo “democratico” (io sono la Francia), una versione dell’imperativo sovrano in cui sarebbe il re ad essere sottomesso alla nazione.

Questa versione della monarchia assoluta, perfettamente antistorica, assomiglia invece alla retorica del mandato mista al presidenzialismo “eroico” e personalista tipici della quinta repubblica.

Versailles è un ottimo esempio di questo assolutismo democratico contemporaneo, della simbiosi tra gli aspetti più identitari del potere e quelli più legati alla governance.


L’État, c’est nous?

Al di là di una critica storica o cinematografica, la serie si presta all’analisi di una congiuntura politica in cui elementi dell’ideologia del Front National ed elementi di quella Macroniana non solo coesistono, ma si fondono. È con questi due elementi allo stesso tempo che dobbiamo confrontarci tanto nella situazione attuale quanto in futuro, comunque vadano le prossime elezioni legislative in Francia, e anche al di là del contesto francese.

Per restare alla Francia, è ovvio che, dopo le presidenziali, il paese non è diventato d’un colpo uniformemente Macroniano. Uno degli effetti del prisma elettorale è proprio quello di polarizzare fenomeni che sono in realtà distribuiti in modo molto meno netto all’interno della società e che, in alcuni casi, sono in realtà connessi e appaiono come distinti soltanto nell’ottica del sistema rappresentativo.

Se uno slogan antielettoralista denunciava la logica del meno peggio presentando la scelta tra Le Pen e Macron come una scelta fra peste e colera, ora bisogna ricordarci che il colera non immunizza dalla peste.

Fuori metafora, il capitalismo più rampante non esclude necessariamente il nazionalismo identitario: i due fenomeni in effetti si rinforzano a vicenda.

Quindi, non solo la “società francese” – intesa qui come costrutto ideologico, non come società reale – è “lepenmacroniana”, ma è necessario continuare ad indagare le dinamiche che legano la società neoliberale all’intolleranza identitaria e alla religione del potere. In questa prospettiva Louis XIV è una figura chiave, perché combina la completa incarnazione di un potere assoluto con la creazione del primo stato macchina nazionale.

Il famoso “l’état c’est moi” non era dunque una questione di semplice autocelebrazione, ma una rivendicazione da parte del monarca di un potere assoluto sui meccanismi del governo che allo stesso tempo stava estendendo e perfezionando.

In realtà, Louis XIV non pronunciò mai questa frase, ma ci ha lasciato, morente, una maledizione non meno degna di fama: “Io me ne vado,” avrebbe detto, “ma lo Stato resterà per sempre.” Al momento della sua morte, infatti, scrive lo storico Joël Cornette, la dissoluzione del potere personale di Louis XIV ha lasciato il posto all’affermazione duratura dello stato amministrativo.

Oggi, l’incarnazione del potere è spettacolare: la vera legittimazione personale del potere si gioca non tanto alle urne ma, prima, nella costruzione dell’immagine del presidente, una procedura di incarnazione governata dai media.

Ed è questo principio tutto contemporaneo di potere spettacolare che viene applicato a Louis XIV nella serie: la lettura “reale” dell’incarnazione del potere nel corpo del sovrano, con le sue numerose malattie e deformità e tutta la mistica del re taumaturgo che ne consegue, è completamente assente.

Troviamo invece diverse situazioni che sono giocate sulla dualità dell’uomo e del re, che suggerisce invece la tensione tra l’immagine del presidente e il corpo della nazione nella democrazia rappresentativa.

L’idea del monarca come presidente illuminato rinforza alla fine l’idea del presidente repubblicano come capo di un potere statale totalitario. Le classi popolari sono completamente escluse dall’orizzonte della serie, al massimo si vede qualche veterano maltrattato.

L’unica a parlare veramente contro il sovrano è una strega, assassina, mercante di veleni e membro di una setta satanica dedita al sacrificio di neonati, in un’invettiva pronunciata sul rogo dove viene bruciata nell’ultimo episodio – qualcuno ha detto demonizzazione?

Potere architetturale e stato d’emergenza

Altro asse portante di questa nuova glorificazione e traduzione contemporanea della monarchia assoluta e del regno di Louis XIV nella serie è la costruzione del palazzo di Versailles, il progetto più caro al sovrano, che lui immagina non solo come la realizzazione simbolica del suo regno ma anche come materializzazione dello spirito eterno della Francia.

Questo è già un elemento dell’ideologia ultraconservatrice propria del FN che la serie incorpora senza criticarlo: è chiaro invece che Louis XIV non costruì Versailles per farne un vanto o un patrimonio nazionale, ma solo come un apparato al servizio del suo potere personale – la nozione di patrimonio nazionale è aliena al XVII secolo e questa lettura antistorica serve a rendere l’assolutismo monarchico più accettabile ad un’audience contemporanea.

Un elemento ultraconservatore che è, tra l’altro, perfettamente coerente con i progetti di governance architetturale che sono oggi percepiti come una caratteristica della tecnocrazia.

Al di là di questo trattamento apologetico dell’architettura del potere, Versailles si presenta nella serie come una versione Louis XIV della società dello spettacolo in stato di emergenza.

La costruzione del palazzo serve a sorvegliare e disciplinare la corte e il suo fasto sovrumano appare come uno strumento di persuasione: Versailles è presentata come il prototipo dell’urbanistica illuminata al tempo della società dello spettacolo e della guerra al terrorismo.

Il primo episodio della prima stagione si apre con una sequenza che è una rapida esposizione di tutti gli elementi salienti della serie: dopo una profezia della madre Anna d’Austria pronunciata sul suo letto di morte si passa ad una sequenza onirica nella futura Galleria degli Specchi che sembra una pubblicità Chanel, per culminare con una minaccia di attentato alla vita del sovrano.

La decisione di Louis di restare a Versailles – al tempo un semplice padiglione di caccia – invece di rientrare a Parigi e quella di farne un palazzo a immagine del suo potere coincidono dunque con la decisione di non cedere ad una minaccia terrorista.

Immediatamente catturato, l’attentatore spagnolo viene confrontato dal capitano dei moschettieri e personaggio di primo piano della serie Marchal (Tygh Runyan) in una scena che ha qualcosa del famigerato “questa è Sparta” del fascistissimo 300: “mi sembra che tu ti sia perso”, il poliziotto ringhia al prigioniero straniero, lo pugnala e poi con un piede gli affonda la testa nel fango dicendogli “benvenuto a Versailles,” parole sulle quali parte la sigla.

Nel corso della serie Marchal userà liberamente tortura e perquisizioni illegali per ottenere le informazioni necessarie a proteggere il re, sia nella prima stagione durante una specie di mini-fronda che la serie sposta dal periodo della reggenza a quello del regno di Louis XIV, che nella seconda durante l’affare dei veleni. Per un verso o per un altro, Versailles è in costante stato d’emergenza, e il brutale Marchal riceve tutta la simpatia dei narratori.

Per essere una versione “neoliberal” oltre che “democratizzata” del potere assoluto – con tanto di aperture politically correct di prammatica – Versailles non ha pudore ad accogliere i peggio discorsi reazionari nella loro forma più “tecnocratica:” ci ricorda in fondo che la libertà non è questione della lotta di un potere contro un altro, ma di una lotta contro tutti i poteri.