A route to connect, seconda tappa. Tra papaveri e filo spinato

Un viaggio sulla rotta balcanica, tra Serbia e Macedonia, dove i profughi sono rimasti bloccati

Testo di Nerina Schiavo, foto di Yousra Makanse e Nerina Schiavo

Ci eravamo lasciati sul confine serbo-croato. A Šid, una cittadina della provincia di Vojvodina, dove centinaia di migranti aspettano di passare in Croazia. In una baracca in mezzo alle casupole basse dei locali, vivono i volontari di Aid Delivery Mission. Quando andiamo a trovarli sono solo in tre, si occupano di distribuire centinaia di pasti caldi ai migranti che vivono nella jungle poco distante dal campo di accoglienza ufficiale.

Nel campo, che non ci è permesso visitare, vivono tante famiglie e tanti bambini, afghani, pakistani e iracheni. Raggiungiamo l’esterno e nonostante l’atmosfera gioiosa, percepiamo la fortissima frustrazione di queste persone, isolate da tutto.

Il campo è pieno e non accetta più nessuno, così tutti gli altri hanno trovato una sistemazione alternativa nella giungla, chi in tende chi in vecchi edifici in cemento abbandonati.

Da settimane i controlli al confine si sono fatti più rigidi, ce ne accorgiamo anche noi contando i minuti che passiamo al controllo passaporti ogni volta che si esce da un paese e si fa ingresso nel successivo. Non ci si muove mai prima di mezz’ora. Si scende dall’autobus, si attraversa il confine a piedi e poi di nuovo si riparte sul bus.

Fermi al confine restano centinaia di ragazzi e uomini perlopiù afghani, pakistani e nord africani. Parlando con due ragazzi pachistani abbiamo subito due prospettive diverse.

Il più giovane dei due è stanco di provare a superare il confine e di incontrare le botte dei poliziotti, preferirebbe tornare a casa sua in Pakistan piuttosto che vivere nella giungla. Il suo amico, anche lui pachistano, ha tutta la famiglia in Germania e non ci pensa neanche ad abbandonare il suo progetto. Prima o poi riuscirà a raggiungerli.

A Subotica, sul confine con l’Ungheria, incontriamo l’ONG Asylum Protection Center (APC). Jana fa la psicologa e ci racconta che le ONG si sono moltiplicate come i funghi dopo la pioggia a partire dal 2015. Il rischio è che non tutte le organizzazioni abbiano le competenze adatte per gestire la situazione.

L’APC è una delle poche che erano attive nel settore prima dell’apertura della rotta, i suoi membri sono, perciò, stati testimoni dell’evolversi della situazione. Jana ce la riassume con una battuta: in serbo la parola dobro došli, “benvenuti” o letteralmente “ben arrivati”, fa rima con bolje prošli, “meglio andati”, il cui senso sarebbe “benvenuti, ma andatevene il prima possibile”. Questo gioco di parole descrive bene il clima serbo.

Le persone sono state accoglienti e comprensive verso i rifugiati finchè era chiaro che la Serbia per loro era solo un paese di transito. Con la chiusura dei confini e la nascita delle baracche nella piazza centrale di Belgrado e degli accampamenti spontanei a Subotica, l’atteggiamento dei locali è cambiato. La gente è preoccupata.

Il tasso di disoccupazione in Serbia è molto alto e i rifugiati bloccati qui diventano altri concorrenti indesiderati. Il passato vicino di queste persone, nessuna senza un parente o un conoscente egli stesso rifugiato, le bombe degli anni 90 sono un ricordo troppo vivo per respingere apertamente la presenza dei rifugiati in questa terra.

Il legame tra le esperienze di allora e quelle di oggi sembra ancora prevalere sulla paura e la diffidenza, ma si tratta di un equilibrio molto precario. Nei media da tempo si è sostituito il termine “rifugiati” con quello di “migranti”. Tra questi, ci sono ulteriori differenziazioni. Gli afghani, ad esempio, sono sempre stati chiamati solo afghani, nè migranti nè rifugiati.

Jana e la sua collega Stella ci raccontano che all’inizio le persone erano in grado di sopportare tutte le difficoltà, dimostrando una resilienza straordinaria. Si contava: si contavano i giorni che mancavano per proseguire sulla rotta, si contavano i numeri e i nomi sulle liste che decidevano i tempi degli attraversamenti al confine.

Questa prospettiva teneva tutti in piedi. Fermi ma certi di andare avanti, prima o poi. Ora che i confini sono chiusi e che quella certezza è venuta a mancare, le persone sono crollate. Tutta la fatica e la frustrazione, che prima tenevano serrate da qualche parte con tutta la forza di cui erano capaci, sono esplose con altrettanta forza.

Jana lo chiama effetto pop corn: pian piano che i fenomeni di depressione hanno iniziato a manifestarsi sono diventati sempre più diffusi. La depressione è contagiosa, ci dice. L’unico aspetto positivo è che ora le loro attività di supporto psicologico possono avere continuità, ma non sono abbastanza.

Lasciamo Subotica per proseguire verso Belgrado. La città è stata svuotata, i rifugiati sono tutti nei campi o nascosti nelle giungle di confine. Lo sgombero delle baracche è stato violento. Alcuni volontari di No name kitchen, anche loro impegnati a fornire pasti caldi ai migranti in attesa, ci raccontano che la polizia ha prima inondato le baracche di veleno per topi e poi smantellato tutto. Ai migranti ovviamente non è stato offerto alcun riparo alternativo.

Dopo cena si riparte, altro bus notturno, questa volta direzione Macedonia. Alle 6.30 del mattino superiamo l’ennesimo confine col solito rituale e alle 10.00 entriamo nel campo di Tabanovce. Si tratta di un campo di transito, gestito dal Crisis management center. Quando lo visitiamo, il 24 maggio, vi risiedono solo 20 persone, ma vi operano 50 volontari.

I rifugiati sono per lo più iracheni, tra questi ci sono tre famiglie; la maggior parte è composta da adulti, i bambini sono solo due. Alcuni sono Yazidi superstiti al massacro dell’ISIS.

Uno di loro ci racconta che 16 persone della sua famiglia sono state rapite dallo Stato Islamico e che sono riusciti a liberare sua sorella e sua zia solo pagando un riscatto di 2.200 dollari.

I suoi nipoti, una bambina di 8 anni e un bambino di 11, sono ancora in Iraq e di loro non hanno più notizie. Quest’uomo, dal sorriso stanco ma sincero, è bloccato in Macedonia da 7 mesi, a causa di una ferita non può tentare di superare i confini illegalmente.

Il manager del campo ci mostra il punto in cui inizia il corridoio che i rifugiati percorrevano quando i confini erano ancora valicabili. Il sentiero costeggia la ferrovia, tra papaveri e filo spinato.

Dopo la performance dei clown per un pubblico molto più anziano del previsto, ma non per questo meno divertito, ci prepariamo per ripartire. Abbiamo ottenuto l’autorizzazione ad entrare in un campo serbo al confine con la Macedonia. È paradossale quanto possa essere facile percorrere questi confini in su e in giù, quando si hanno i passaporti giusti.

Mentre i nostri due compagni iracheni ci aspettano nell’aeroporto di Salonicco, dove uno di loro ha dovuto passare ore nella saletta della polizia aeroportuale, a causa di un problema col suo passaporto, noi varchiamo di nuovo il confine con la Serbia per entrare nel campo di Preševo. Stavolta il pubblico è decisamente più giovane, ci sono almeno 150 bambini, ma il clima non è per nulla disteso.

Finito lo spettacolo, saltiamo sul bus per rientrare in Macedonia, la seconda volta nell’arco di qualche ora. E dopo poco siamo a Skopje. Lì parliamo con Legis, un’altra ONG presente nei campi di confine con la Serbia e la Grecia. Anche qui la situazione non è delle migliori.

La crisi di governo ha messo in stallo tutto il sistema di accoglienza e i campi sono vuoti o quasi: finché non arrivano disposizioni dal governo, non possono essere accettate nuove persone, che quindi rimangono nei paraggi, così da poter ricevere cibo e altri aiuti dai volontari e dagli operatori dei centri. In questi giorni leggo che l’accordo è stato raggiunto e spero che tutti i migranti nei pressi del campo di Tabanovce possano trovarvi finalmente riparo.

Si riparte all’alba, questa volta verso Salonicco. In Grecia la sensazione è quella di tornare a casa prima del tempo ed entro in autogrill convinta di poter ordinare un caffè espresso, invece mi ritrovo tra le mani un bibitone freddo con ghiaccio e cannuccia.

Mancano pochi giorni alla fine del viaggio, l’ultima settimana la passeremo tra le vie afose di Atene e le coste ventose di Lesbo. Alla prossima ed ultima tappa.

Salva