A route to connect, terza tappa. Il limbo greco, tra opportunità e passi indietro.

Il tratto finale della rotta balcanica, dove si attende nei campi profughi della Grecia

di Nerina Schiavo, foto di Claudia Strambini (apertura) e Yousra Makanse (testo)

Arriviamo in Grecia a fine maggio, dopo la pioggia e la foschia della Macedonia, ad accoglierci a Salonicco ci sono almeno 30 gradi e un sole cocente.

Secondo i dati del governo, in Grecia si trovano ancora circa 62 mila persone. La situazione, dopo la fine dell’emergenza scoppiata tra il 2015 e il 2016, dovrebbe essere tornata alla normalità. Ma questa normalità vuol dire stallo per tutti quelli che aspettano di fare richiesta di protezione e di ricevere finalmente una risposta; l’attesa media non è mai inferiore ad un anno.

Il Presidente del Greek Forum for refugees (GFR), Younus Mohammadi, lui stesso rifugiato in Grecia dall’Afghanistan, ci spiega che la procedura di richiesta funziona ancora tramite Skype. Si tratta di un meccanismo inevitabilmente lento: ci sono solo alcuni giorni a settimana e degli orari precisi da rispettare per ogni nazionalità.

Prendere la linea e riuscire a inoltrare la richiesta richiede mesi per la maggior parte delle persone. Il Forum, tra le altre cose, si occupa anche di seguire e supportare i richiedenti asilo in questa prima fase.

Nei pressi di Salonicco riusciamo ad entrare nel campo di Veria. Nonostante le istruzioni rigide che ci vengono impartite dalla coordinatrice, una volta dentro, il clima è abbastanza rilassato. Ci sono soprattutto famiglie, giovani e bambini. La parata e lo show dei nostri clown proseguono nell’entusiasmo generale.

Veniamo a sapere che è un giorno speciale, si festeggia il ricollocamento di due ragazzi iracheni, che l’indomani partiranno per Atene. Me lo racconta Alahddin, un ragazzo siro-palestinese sulla ventina. Viene da Damasco ed è in Grecia da un anno e due mesi; è arrivato a Veria dopo essere passato da Chios.

Lì, grazie ai volontari, è riuscito a imparare l’inglese, prima non lo parlava affatto. Spera di riuscire a studiare elettronica, non importa dove, l’importante è che sia al sicuro; spera lo stesso per la sua famiglia, ancora a Damasco.

Proseguendo verso sud, arriviamo ad Atene. A 45 km dalla capitale, c’è il porto di Skaramangas, che ospita anche un campo rifugiati: una distesa di tende bianche resa accecante dal sole di fianco al mare. Qui sono ospitate quasi 3500 persone e il campo ha tutta l’aria di essere un limbo.

Una bambina siriana di 5 anni non potrebbe farcelo capire più chiaramente, con una sola risposta. Quando una volontaria le chiede da dove viene, risponde: “Da qui”; la volontaria glielo chiede per la seconda volta, pensando che non avesse capito la domanda e lei ripete irritata: “Te l’ho detto, sono di qui!”

Dei 62 mila rifugiati presenti in Grecia, 8500 si trovano sulle isole. È lì che siamo diretti, più precisamente a Lesbo, dove sbarchiamo l’indomani con il traghetto notturno.

L’isola è ospitale, non ci sono ancora turisti o forse è solo troppo presto, il tempo si prevede variabile e ci aspettano tre giorni di vento e pioggia.

Parlando con il proprietario della taverna dove ceniamo la prima sera, scopriamo che in realtà Lesbo, nonostante la sua bellezza, non è mai stata una grande attrazione turistica, eccetto che per alcune zone nel nord dell’isola. Non ci sono grandi spiagge, per lo più la costa è rocciosa, ma il panorama comunque toglie il fiato.

I gestori della taverna ci raccontano che dal 2015 quel po’ di turismo che arrivava anche qui è andato scemando e le cose si sono complicate per chi lavora nella ristorazione e nel settore turistico. Lo stesso ristoratore ci dice, però, che non si possono incolpare i rifugiati o essere ostili nei loro confronti, non qui.

La maggior parte della popolazione dell’isola discende da quei greci che negli anni venti del secolo scorso furono costretti a lasciare le coste turche dopo il Trattato di Losanna, che segnò l’inizio di uno dei più grandi scambi di popolazione della storia. Da una parte, un milione e mezzo di greci che tornavano nella patria di origine senza conoscerla e, dall’altra, i turchi, quasi 500 mila persone, che lasciavano le isole per una terra altrettanto sconosciuta.

Su quest’isola, piena di storie, trascorriamo quattro giorni. I rifugiati potranno aver portato scompiglio, ma l’impressione è che abbiano anche ridato vita a questo posto, stimolando degli esperimenti di vita autogestita e comunitaria. Uno di questi è il Mosaik center, una scuola, come ci spiegano i suoi fondatori.

Qui non si fa chiasso e non c’è il wifi, qui si viene a imparare: corsi di lingua inglese, di greco e di informatica; ma anche laboratori artigianali, come quello della sartoria Safe Passage, dove i rifugiati realizzano borse con i giubbotti di salvataggio recuperati dai volontari sulle coste dell’isola. Il centro è ormai un punto di riferimento per rifugiati, volontari internazionali e solidali.

Il secondo giorno visitiamo Pikpa, un ex centro estivo per bambini, ora trasformato in centro di accoglienza autogestito dai greci e dalle comunità che lo abitano. Il centro è destinato perlopiù a famiglie e a persone vulnerabili. Ad animarlo ci sono dozzine di bambini, occhi curiosi che fremono in attesa dello show, del quale più che spettatori vogliono essere gli attori principali.

Alcuni dei volontari ci raccontano che la comunicazione è la chiave per gestire questo posto.

Nonostante le barriere linguistiche – i rifugiati provengono dai più disparati paesi, Siria, Iraq, Afghanistan, ma anche Congo ed Eritrea – si è trovato il modo di convivere e di autogestirsi. Un esempio di questo lo troviamo, ancora una volta, nella storia di due bambini, uno siriano e l’altro iraniano, uno parla l’arabo e l’altro il farsi.

I due trovano comunque il modo di comunicare con mozziconi di inglese e dove le parole non arrivano arriva la loro fantasia. Presto diventano inseparabili e a Pikpa sono famosi, soprattutto lo è l’aneddoto che ha per protagonisti i due amici e una bicicletta. Tutto ciò che si trova al centro è frutto di donazioni, tra queste alcune biciclette, insufficienti per tutti i bambini.

La coppia di amici si trova a doverne condividere una. L’amicizia è messa a dura prova, ma è Amir, con il suo inglese stentato ma deciso, a risolvere la situazione diplomaticamente: “me bike good, you bike no good!” Pare che l’amicizia sia sopravvissuta anche a questo.

Se, da una parte, ci sono queste esperienze positive e solidali, dall’altra Lesbo è anche sede di uno degli hotspot europei, necessari a separare richiedenti asilo con effettiva possibilità di ottenere una qualche forma di protezione, da chi invece è più vicino, per provenienza, alla definizione di migrante economico.

Il centro di detenzione si trova a Moria, nel nord dell’isola. Una serie di gabbie e recinti divisi in almeno tre sezioni diverse, non sempre comunicanti tra loro. Da Moria devono passare tutti i nuovi arrivati, da quando l’accordo con la Turchia, a marzo dell’anno scorso, ha spartito le acque dell’Egeo, tra chi è arrivato prima di quel 20 marzo e chi dopo.

Ventotto giorni sono il periodo di tempo minimo da trascorrervi; dopo, se si è fortunati o considerati vulnerabili, si viene trasferiti in altri centri, come quelli di Karatepe o Pikpa o si guadagna un braccialetto che permette di uscire e di rientrare al campo.

Quando riprendiamo il traghetto per Atene, incontriamo Ester, una signora eritrea conosciuta al Mosaik center. Lì si occupava di uno dei laboratori, realizzando orecchini, gioielli e oggetti di tutti i tipi con materiali riciclati. Ha appuntamento ad Atene con le autorità competenti ad esaminare la sua richiesta di ricollocamento; solo lì scoprirà la sua nuova destinazione.

Per gli ultimi due giorni ad Atene, tappa obbligata è l’hotel Plaza, uno degli esperimenti di accoglienza autogestita più riusciti. Ha da poco compiuto un anno, ma è già un’istituzione qui e in tutta Europa.


Vi entriamo per il solito show e, finita la performance, ci spostiamo nel bar, dove incontro Behrad, un ragazzo iraniano che ha lasciato la città di Ishfahan insieme alla sua famiglia. Ora vivono tutti insieme in una delle camere del Plaza. Quando ci incontriamo, lui si sta esercitando con il greco, ma scopro che conosce anche qualche parola di italiano.

Tanti volontari italiani sono passati di qui e così Behrad si è appassionato a questa lingua, non vuole dimenticarla, quindi, appena può, rispolvera tutte le frasi e le parole che conosce. Vorrebbe andare in Italia, ma ad Atene non si trova male. Da poco ha anche ricominciato a nuotare, in Iran lo faceva a livello agonistico e ora che ha ripreso la sua passione si sente più a casa.

Dopo tre settimane di viaggio, non posso fare a meno di pensare a quello che è rimasto fuori, al resto della rotta che inizia molto più lontano dal nostro punto di arrivo e a quello che succede solo a poche miglia di mare dall’isola di Lesbo.

Il 2 giugno lascio Atene per tornare a Roma, mentre al confine terrestre tra Grecia e Turchia, una famiglia con quattro bambini viene respinta dall’altra parte del fiume Evros, che separa i due paesi.

Non si tratta del primo episodio del genere: già a fine maggio un’altra famiglia e un giornalista turco erano stati respinti, come denunciato dalla Lega Ellenica per i diritti umani.

Murat Çapan, redattore della rivista Nokta, ora si troverebbe in prigione in Turchia, dove è stato condannato a 22 anni e mezzo per terrorismo, a causa di due copertine della rivista critiche nei confronti del presidente Erdogan.

Il governo greco smentisce le accuse: nessun respingimento sarebbe mai stato realizzato. Secondo i suoi dati, però, più di 200 cittadini turchi avrebbero fatto richiesta di protezione in Grecia dall’inizio dell’anno. Il timore dei difensori dei diritti umani è che si inizi a rispedirli indietro e a respingere al confine chi tenta di lasciare la Turchia per ragioni politiche e diplomatiche.

Sotto il governo di Erdogan, più di 140 mila persone sono state licenziate o sospese dai loro lavori, a partire dal fallito colpo di stato del luglio 2016, perché sospettati di essere legati al predicatore Fethullah Gulen, considerato l’organizzatore del coup. Quasi 45 mila persone sono state arrestate e, tra queste, ci sono 120 giornalisti.

Questo è il paese ritenuto sicuro per chi è in cerca di rifugio e con cui l’Unione Europea ha fatto muro contro i rifugiati. Il viaggio a cui ho preso parte si chiama A route to connect e l’obiettivo era proprio quello di riconnettere e riconnettersi alle persone che transitavano lungo questo percorso e che sono rimaste bloccate, ostaggio di politiche miopi ed egoiste.

Rompere l’isolamento dei muri e del filo spinato semplicemente andando a incontrare queste persone e parlando con loro. Raccontare le loro storie è il primo passo di questo nuovo cammino.