Intervista a Gitai, tra l’ultimo documentario e la visione dell’occupazione
di Carlotta Muston
Abbiamo intervistato il regista Amos Gitai in occasione di un confronto a più voci sul tema: “Architettura dei conflitti: una conversazione su linguaggi, territori e rappresentazioni”. Tra gli invitati, oltre Gitai, l’architetto e ricercatore israeliano Eyal Weizman, la ricercatrice italiana Francesca Recchia, l’architetto Alessio Battista di Arcò, cooperativa di architetti che ha progettato la Scuola di gomme per Vento di Terra e Annibale Rossi di Vento di Terra.
Alla fine del confronto, Gitai si fa fare foto sul palco e con un sorriso sornione mi fa cenno di salire. Mi accomodo sulla sedia accanto a lui mentre impartisce ordini al tecnico del suono: che stia di guardia al suo cellulare, si assicuri che nessuno lo rubi. Con la erre roboante di chi parla ebraico come lingua madre e con i modi antipatici, scortesi e perentori tipici di chi ama provocare, mi guarda di sottecchi, e mi dice con una strizzata d’occhi “mi piace dare fastidio, spiazzare le persone, creare uno iato nelle convenzioni”.
Gitai ha presentato il suo ultimo documentario all’inizio di maggio a Cannes, West of the Jordan River e sulla sua visione artistica si è concentrata la nostra conversazione. Il documentario, non ancora disponibile nelle sale italiane, vuole raccontare “l’essenza del problema israelo-palestinese, investigando, a partire da essa, la possibilità di una risoluzione”.
A proposito di questo. Lei ripete spesso che il suo cinema vuole fare emergere le contraddizioni della realtà. Tuttavia insiste che nella rappresentazione di queste contraddizioni, per quanto si scelga sempre in che modo raccontare, si schiera contro coloro che usano la regia in modo ‘demagogico’ e spesso cita l’esempio di Michael Moore. Come si traduce ne suo lavoro questo rifiuto e come impatta nella rappresentazione di un conflitto come quello israelo-palestinese?
La demagogia è un aspetto fondamentale di questo rifiuto. Vedi, quando mi presentano documentari che manipolano la realtà per una rappresentazione della stessa secondo una certa ideologia che si maschera come rappresentazione fattuale, anche se in partenza posso essere d’accordo con quelle idee, comincio a dubitare del mio stesso pensiero e non riesco più a credere in quelle cose. Le idee progressiste sono forti di loro stesse e quando vengono rappresentate in forma demagogica perdono la loro forza.
Si potrebbe obiettare che nella rappresentazione del conflitto israelo-palestinese ogni tipo di rappresentazione che si discosti dal racconto israeliano, sia percepita come demagogica
Sappiamo che il conflitto non è simmetrico e lo sanno i palestinesi in prima persona. Quando racconti il conflitto tuttavia non puoi raccontarlo come se esistessero angeli e demoni, come se ci fosse un male assoluto che lotta contro un bene assoluto. Se io raccontassi la realtà secondo questi schemi semplicistici farei dell’adulazione. E, a mio avviso, l’adulazione è una forma di colonialismo essa stessa. Ci sono dei problemi nella società palestinese stessa e raccontarli, raccontarne le contraddizioni, non significa mascherare l’asimmetria del conflitto. Nella mia rappresentazione della realtà io non cerco l’oggettività, che è un concetto in cui non credo. Ma allo stesso tempo diffido di quei documentari che tendono alla manipolazione. Quello che io sento di dover fare è nutrire punti di vista differenti. In particolar modo, nel momento in cui il governo (e i governi) vogliono limitare la nostra esposizione a punti di vista differenti.
In questo senso lei parla dell’arte cinematografica come a un modo di costruire ponti e connessioni. Rispetto a questo, nel suo ultimo documentario racconta anche l’esperienza della scuola di gomme e lì decide di concentrarsi, tra gli altri, su Jeremy Milgron, rabbino e tra i leader dei Rabbis for Human Rights, vicino al progetto della scuola. È in questo senso che intende la costruzione di ponti tramite la contrapposizione di ‘oggetti’ potenzialmente lontani o facilmente confinabili entro scatole separate?
Si vedi, io penso all’arte come alla trasposizione delle contraddizioni della realtà. Chiaramente questa trasposizione, ma la percezione stessa di aspetti del reale come contraddizioni, provengono da una certa prospettiva sul mondo. In questo senso, il pubblico è per me interprete e non consumatore. Quello che spero accada è che il pubblico esca dal cinema e costruisca il significato di ciò che ha visto. Non voglio rappresentare eroi. Prima di ogni altra cosa, bisogna aprire la mente. Se il mio pubblico esce con una mente più aperta, considerando aspetti che non avevo visto, ho raggiunto il mio obiettivo. La contraddizione, di cui ti dicevo prima, è il primo passo per la costruzione del ponte e va in direzione contraria all’angelizzazione, in questo caso dei palestinesi. La contraddizione si pone in diretta opposizione alla polarizzazione perché mostra i volti diversi del conflitto e porta, sul lungo termine, all’accettazione dell’altro e alla riconsiderazione del tuo gruppo di appartenenza.
Cosa ha pensato della Scuola di gomme quando l’ha vista?
La questione qui è che io sono in estremo disaccordo con quanto detto da Francesca Recchia durante il dibattito. (Nell corso del dibattito Francesca Recchia ha ribadito la necessità di avere consapevolezza del fatto che è possibile discutere in modo teorico dell’architettura del conflitto, costruendo e analizzando una dimensione multi-semantica, è perché chi ne stava parlando aveva sempre una via di uscita. Chi si trova coinvolto dal conflitto in prima persona non ce l’ha. Ndr). Io non credo che ogni gesto si limiti a un livello politico. Può essere politico, ma è fondamentale che ci sia qualità e bellezza. La scuola di gomme non è un luogo importante solo per la sua valenza politica di resistenza su e del territorio all’usurpazione. Ma acquisisce valore e importanza per la sua bellezza e la sua qualità. Non c’è solo la realtà israeliana che viene opposta lì dentro, ma avvengono vere e proprie trasformazioni. Ad esempio, lì bambini e bambine studiano insieme senza segregazione. L’importanza di realtà come quelle della scuola di gomme è che sono multi-semantiche. L’architettura è parte di quella proposizione di bellezza. Il fatto per esempio che sia tutto ecosostenibile e che si sia ovviato alle limitazioni imposte dall’occupazione israeliana dà a quella scuola una potenza ulteriore e sovversiva nella sua semplicità e bellezza. Pensa a come l’impossibilità di costruire in cemento e l’inaccessibilità all’elettricità dettata dal regime israeliano abbiano prodotto delle soluzioni ecosostenibili attraverso la creazione di una struttura in pneumatici e l’installazione di pannelli solari. È la qualità che cambia il mondo e quella scuola è un gesto eccezionale, un reale contributo- Ed è raro. È una proposizione che si proietta oltre la soluzione di un bisogno immediato, ma pensa in senso rivoluzionario. Non è importante che sia stato realizzato da una organizzazione italiana e non da persone locali. Le idee devono viaggiare ed è attraverso la contaminazione e l’apertura che si crea spazio per il cambiamento. Per tutto quanto ho appena detto, voglio supportare questo progetto. Per quanto posso e come posso la supporterò e attraverso West of the Jordan River spero che il progetto acquisisca visibilità.