Un libro racconta, attraverso testi e immagini, la resilienza della capitale bosniaca durante un assedio di oltre 3 anni
“… se fossi un balcanico, se fossi un balcone, il balcone balcano” cantava Elio ne “La canzone del I maggio”. Con la fine delle guerre che hanno portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia un nuovo spazio si è creato nella cartina europea: un buco nero, sgangherato, esotico, eccentrico, sanguigno e bizzarro. Dove la gente spara in aria con il kalashnikov per dimostrare la sua ilarità e brinda fino a frantumare i bicchieri. Così sono ri-nati i Balcani come un’idea di ferinità, caos e violenza liberatrice. Tutto quello che spaventa ma allo stesso tempo attrae le società europee riversato in un’area del mondo. Poi sono arrivati Goran Bregović ed Emir Kusturica e hanno venduto un brand da esportazione, che in Europa occidentale ha trovato particolari estimatori. In questo blog offriremo alcuni frammenti culturali dallo spazio jugoslavo e post-jugoslavo che hanno poco in comune, se non quello di riuscire sconosciuti a chi in quei luoghi va a cercare i Balcani.
di Francesca Rolandi
Durante il suo assedio, durato dal 4 maggio 1992 al 19 marzo 1996, Sarajevo ha offerto al mondo un esempio emblematico di come fosse possibile resistere alla barbarie che la stringeva in una mossa semplicemente perpetuando la vita di ogni giorno e dando spazio a quella medicina dell’anima che è la creatività.
Sono passati alla storia il violinista Vedran Smajlovic che suonava sulle macerie della biblioteca bruciata, come Susan Sontag che visitava la città assediata. Tuttavia, dietro di quello c’era molto altro, c’era una città che si opponeva strenuamente alla follia che l’aveva travolta, continuando ostinatamente a fare quello che faceva anche prima, ma con più forza e più disperazione, per cercare di recuperare quella normalità che era andata persa.
Fu così che a Sarajevo si mise in scena il musical Hair, sebbene mancassero acqua ed elettricità, gli abitanti si vestivano con gusto per attraversare le strade su cui sparavano i cecchini e inventavano sempre nuovi stratagemmi per superare le difficoltà dell’assedio.
Come costruire un’antenna con due aghi da maglia, un cucchiaio e una forchetta per riuscire a captare il segnale televisivo.
E fu così che i cittadini di Sarajevo fecero tesoro della resilienza ma anche dell’inventività per arrivare a vedere la luce alla fine del tunnel. In senso letterale e metaforico.
Tuttavia non tutti sopravvissero perché l’assedio causò 11.000 morti in una città che ne contava poco più di 360.000 prima della guerra. Sarajevo survival, tradotto e pubblicato di recente da Edizioni BéBert, racconta questa storia.
L’edizione originale è opera del collettivo di artisti FAMA, che da oltre due decenni propone progetti multimediali relativi all’assedio di Sarajevo.
Il libro è una testimonianza della particolare vicenda storica dell’assedio di Sarajevo ma anche una lezione di come l’umanità si possa preservare anche in circostanze estreme.