Il quinto elemento

Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.

Di Enrico Natoli

 

Premessa

Dovevamo partire in cinque, ma una decisione presa all’istante, in assenza del quinto elemento del gruppo, fece la differenza. Sono quasi tutte stupide le decisioni affrettate prese quando ancora non hai vent’anni, ma a quell’età è probabile che riescano ad ingannarti assumendo sembianze credibili. Quattro è un numero sufficiente per partire, no?

Partivamo comunque in cinque e lo sapevamo, il motore della decisione improvvisa era noto a tutti. Anche se il quinto elemento che partiva con noi era quanto di meno umano sia possibile incrociare nell’arco di una vita.

L’Irlanda era entrata con prepotenza nelle nostre vite colme di sogni, passioni repentine e spesso fugaci, soprattutto ormoni. Irlanda nella musica, le letture, i fiumi di birra e le chiacchierate notturne, il whisky che avevamo imparato a chiamare whiskey. Leggende e luoghi comuni, luoghi comuni a pacchi. Il verde. L’ospitalità. I folletti. Bobby Sands. Joyce. La squadra di calcio che aveva fatto una figura epica agli Europei. “Lontana dagli occhi, vicina al cuore”, come recitava una pubblicità dell’Ufficio del Turismo. Gli U2 e la bloody sunday tradotta in musica.

A quasi vent’anni avevo già accumulato un discreto ritardo nella vita, per motivi che esporre qui è inutile, ma quest’accenno è importante per dire che conobbi la musica degli U2 non prima dell’uscita di “The Unforgettable Fire”. A metà degli anni ‘80 questa lacuna culturale marcava una differenza. I più esperti, i più sgamati, ti dicevano senza nessuna empatia che mentre ascoltavi “A sort of homecoming” non sapevi nulla di “Boy”, “October”, “War” e “Under a blood red sky”. Pivello.

Mi misi all’opera duramente per colmare la distanza. Non era un vezzo da fan di una boy band: piuttosto una questione importante, identitaria, per quanto il termine avesse senso in quel contesto. Non ci volle molto ad acquistare i quattro mancanti più diversi bootleg trovati dopo ricerche lunghe e spesso guidate dal caso. Ne massacrai i solchi sul giradischi, godendo di una passione sconosciuta fino ad allora, mettendo in crisi le orecchie e il sistema nervoso dei vicini.

Non erano solo gli U2 a dirci che dovevamo andare. Ce lo gridavano nelle orecchie anche i Pogues, i Thin Lizzy, Van Morrison e incredibilmente anche i Chieftains, i Dubliners. Perché mai sarebbe dovuta piacerci la musica tradizionale irlandese? Quale legame potevamo sentire con la ribellione dei Wolfe Tones? Non capivamo ma sentivamo e questo ci bastava. I Clannad. Sinead O’Connor e la sua voce da farti innamorare al primo ascolto e poi vista la foto e il video su Videomusic era amore senza ritorno.

We’re all part of Jacky’s army

Il tragitto segnato sulla cartina attraversava il Nord Italia, la Francia, il Galles. Destinazione Dùn Laoghaire e da lì tutto da decidere. Nessun vincolo con nessuna agenzia di viaggi, se non per il traghetto del ritorno. Viaggiavamo su una Uno bianca colma di pacchi di pasta e passata di pomodoro, una moka e qualche pacco di caffè.

L’accoglienza la ricevemmo nei pressi di Dublino dalla vecchia proprietaria di un pub appoggiato a una statale con intorno nulla che somigliasse a un agglomerato urbano.

“Non vi cambio i soldi se prima non cantate qualche canzone con noi”. L’altro essere umano che declinava il gentile ricatto al plurale era la figlia, seduta a un vecchio pianoforte su un lato del pub. Non vedeva più di Ray Charles, suonava meglio di noi quattro messi insieme. Leggende. Luoghi comuni. Il primo era lì, davanti ai nostri occhi, e ci aveva già depredato le anime. Era per questo tipo di incontri che eravamo partiti. Uscimmo dal pub molte canzoni e molte birre dopo, non ricordo se cambiammo i soldi.

Venti giorni di strade tortuose e solitarie, in genere ben curate, ostelli con indicazioni chiarissime: “There are ladies’ bedrooms and gents’ bedrooms. This means exactly what it says”. Ormoni avvertiti. Prati verdi a perdita d’occhio e muretti a secco. Bucati stesi al sole e impossibile da prevederne il ritiro, pioveva come da luogo comune spesso e all’improvviso. Il muro di entrata nel quartiere cattolico di Derry “You are now entering free Derry”. La camionetta blindata dell’esercito inglese rispettava il copione di una scena immaginata non si sa quante volte, tallonando la Uno bianca dalla targa ignota e dai richiami troppo papalini. I cimiteri – luoghi imprescindibili, per noi che dovevamo avere a che fare per forza di cose con l’idea e il confronto della morte, della sua presenza quotidiana.

Per scoprire con una certa sorpresa che loro, i cimiteri, erano aperti al pubblico per questioni di vita ordinaria da fine settimana come organizzare un picnic stendendo un telo a terra tra le lapidi o dare quattro calci a un pallone. L’oceano gelato, i nostri maglioni in spiaggia e i costumi da bagno degli abitanti. Il verde della terra e il blu del cielo producevano un calore che i nostri corpi non erano attrezzati a capire.

“Sono fuori fino a mercoledì, restate quanto volete e se ripartite prima del mio rientro lasciate i soldi sul tavolo”. Era domenica quando leggevamo il biglietto scritto a mano all’entrata di un ostello tanto vuoto quanto ospitale nel mezzo di una delle isole Aran, la concessione più generosa al turismo di massa che facemmo in quel viaggio: dobbiamo vederne almeno una. Non c’era nessuno nei paraggi a parte noi.

Ewing

James Ewing fu un celebre patologo americano vissuto nella prima metà del ‘900. Non so se abbia mai visitato un cimitero irlandese o sostato in un ostello dove il proprietario ti investiva della sua fiducia preventiva nella tua correttezza, ma è sicuro che nel corso dei suoi studi scoprì una forma di tumore piuttosto rara, insorgente nei giovani e negli adolescenti, che aggredisce le ossa in alcuni punti specifici andandosene spesso in giro per il resto del corpo.

Il quinto elemento del nostro gruppo era lui, il sarcoma di Ewing, ospite mai invitato e sgraditissimo del corpo di uno dei quattro. Ben prima della partenza per l’Irlanda aveva preteso il suo spazio prendendosi una gamba fino all’amputazione, lasciando ammutoliti i nostri cuori e concedendoci solo una impalpabile possibilità che non si fosse già accomodato nei centri vitali. Quella presenza costruì un muro invisibile e invalicabile, un noi e un loro, una distanza che per quanti sforzi facessimo nel minuscolo della nostra umanità investita da un tale scompiglio non ci riuscì proprio di colmare.

Il rito che chiudeva ogni giornata irlandese, verso il tramonto prima del rientro in ostello, escludeva la partecipazione del possessore del quinto elemento. Loro due se ne stavano seduti in macchina mentre noialtri tre, aperto il portellone posteriore della Uno bianca, cercavamo di infilarci un pallone di cuoio dai pentagoni bianchi, rossi e verdi. Il tiro decisivo doveva essere al volo: se la palla entrava in macchina ma rimbalzava fuori il rito ricominciava. Una fesseria e un modo per alleggerire la presenza del quinto elemento. Per partecipare tutti fu necessario inventare e giocare un paio di partite di “calcio seduto”, permettendo al portatore di protesi dall’anca in giù di liberarsene temporaneamente e a tutti noi di fornire una prestazione fisica di pari livello. E vattene pure a fare in culo, quinto elemento: alla fine ci avrai tutti, ma finché potremo dirtelo vattene a fare in culo.

A Dublino restammo poco, ci interessava di più salire verso il nord-ovest, verso il Donegal, terra di presenze umane rarefatte e delicate. Giusto il tempo di fare un salto rituale a Windmill Lane, dove gli U2 avevano costruito l’inizio delle loro fortune, e ascoltare i racconti dei dublinesi su certi problemi legati al fisco della rock band presto più popolare al mondo. Un vitale granello di sabbia nelle nostre, seppur poche, certezze.

Una puntata serale al pub più vicino e il giorno dopo allo stadio per assistere alla finale di football gaelico tra la contea di Dublino e quella di Meath. Il sogno inconfessabile di ogni calciatore: saltare in area di rigore avversaria e anticipare il difensore dando un gran cazzotto alla palla, tornare a terra e alzare le braccia al cielo mentre la rete si gonfia all’altezza dell’incrocio dei pali.

A football gaelico si può – si deve – fare: gesto che manda il pubblico in estasi, vale tre punti.

All’uscita dello stadio aspettavo gli amici nei pressi del parcheggio. Ne fumo una, voi andate avanti, ci rivediamo qui. Al collo una sciarpa dell’Irlanda acquistata dentro lo stadio, per puro caso gli stessi colori della squadra di Dublino vincitrice della partita: il verde cattolico, l’arancione protestante, il bianco della pace. Questo dicono i luoghi comuni. Vidi avvicinarsi un gruppo di tre o quattro con addosso i colori degli altri. Uno di loro a torso nudo, alto una ventina di centimetri più di me, proporzionato di conseguenza nel resto del corpo. Indossava una minacciosa e invidiabile pancia da birra. Non posso crederci. In quindici anni di stadio a Roma mai preso un cazzotto, guarda te se mi devono menare in Irlanda. Per una squadra che manco conosco, per uno sport che a malapena so che cosa sia. Il gigante mezzo nudo si avvicinò a un passo da me tendendo la mano destra: “Good match, good match”. Passarono tutti oltre e io mi controllai il corpo con le mani, incredulo, sono intero, sono ancora intero. Luoghi comuni. Qui ed ora.

Accadde tutto più o meno trent’anni fa. Il quinto elemento si prese tutto il nostro compagno di viaggio qualche anno dopo. Le cicatrici dentro le tocco ancora, fanno male quando decidono loro, si riaprono a volte senza che io possa opporre alcunché.

A sort of homecoming

Forse avrei dovuto raccontare l’Irlanda più in dettaglio, dopo tutto era questo il motivo del racconto. Avrei dovuto raccontare di un popolo che all’epoca del viaggio contava tre milioni di abitanti. Più altri cinquanta milioni sparsi per il mondo con cicatrici ben più grandi delle mie, con gli squarci di una guerra “civile” che ha lasciato troppi corpi per terra, di una disoccupazione da miseria nera infiltratasi nel DNA. Dopo tutti questi anni mi chiedo ciclicamente se avrei il coraggio di tornare in Irlanda. Non so se vorrei misurarmi con un paese che nel frattempo ha vissuto un boom economico mai vissuto prima e in tempo di crisi europea è stato iscritto nell’orribile acronimo PIIGS, simbolo di divario nella testa di chi comanda per definire chi conta di più e chi conta di meno. Non credo che mi ritroverei nel paese dei Trattati di Dublino, dei referendum popolari fatti ripetere finché il risultato sia un . Vivo con un desiderio di tornare in un luogo che ho riconosciuto come casa più di tante case dove ho abitato davvero e il terrore di trovare tutto cambiato.

Dopo tutto questo tempo mi rimane nelle orecchie il canto che si sollevò dapprima sommesso poi sempre più convinto nel pub del traghetto di andata. Fu la prima volta che vidi un pub vero su un traghetto: con il legno e i sedili imbottiti e gli specchi alle pareti e i fiumi di Guinness e tutto. E non ho raccontato delle due donne più belle che abbia mai conosciuto. Leggende. Capelli rossi e occhi verdi, pelle chiarissima e lentiggini e labbra che schiudevano il più memorabile dei sorrisi. Luoghi comuni.

A Emanuele, nato il primo novembre del 1967.

 

 

A sort of homecoming

And you know it’s time to go

Through the sleet and driving snow

Across the fields of mourning

Light in the distance

And you hunger for the time

Time to heal, desire, time

And your earth moves beneath

Your own dream landscape

Oh, oh, oh

On borderland we run

I’ll be there

I’ll be there

Tonight

A high road

A high road out from here

The city walls are all come down

The dust, a smoke screen all around

See faces ploughed like fields that once

Gave no resistance

And we live by the side of the road

On the side of a hill

As the valley explode

Dislocated, suffocated

The land grows weary of its own

Oh come away, oh come away, oh come away, I say I

Oh come away, come away, oh come, oh come away, I say I

Oh, oh, oh

on borderland we run

And still we run

We run and don’t look back

I’ll be there

I’ll be there

Tonight

Tonight

I’ll be there tonight, I believe

I’ll be there so high

I’ll be there tonight, tonight

Oh come away, I say, I say oh

Oh come away, I say

The wind will crack in winter time

This bomb-blast lightning waltz

No spoken words, just a scream

Oh oh oh oh oh oh oh

Oh oh oh oh oh oh

Tonight we’ll build a bridge

Across the sea and land

See the sky, the burning rain

She will die and live again

Tonight

And your heart beats so slow

Through the rain and fallen snow

Across the fields of mourning

Light’s in the distance

Oh don’t sorrow, no don’t weep

For tonight, at last

I am coming home

I am coming home

Written by Adam Clayton, Dave Evans, Larry Mullen, Paul Hewson • Copyright © Universal Music Publishing Group