Nel buio abbagliante: vita e morte di Fadwa Suleiman

Uno dei tanti volti della società civile siriana, protagonista della rivoluzione non violenta in Siria, morta in esilio a Parigi e dimenticata dai media, come tante voci non violente del conflitto

di Alberto Savioli

Il dramma del popolo siriano e le bugie di un regime, trattato con troppa accondiscendenza da alcuni, sono esemplificate nella parabola rivoluzionaria di Fadwa Suleiman, attrice di teatro, di film e di serie televisive, morta prematuramente in esilio a Parigi.

Ribelle fin da piccola, a 13 anni si era rifiutata di entrare nell’ala giovanile del partito Baath. È stata una figura esemplare di attivista contro un regime, che ha preteso di raccontare le manifestazioni di piazza del 2011 come una rivolta armata, confessionale e infarcita di jihadisti: Fadwa era donna, cresciuta in una famiglia di intellettuali di sinistra, di confessione alawita (come il presidente siriano), pacifista e contro l’estremismo religioso.

Eppure in Italia non è diventata un’icona dei troppi movimenti (pseudo) pacifisti o di sinistra, schierati al contrario nella difesa del presidente siriano Bashar al-Assad, a loro dire “vittima di un complotto imperialista”.

La sua vita, come la sua morte, non è stata ricordata dalla stampa nazionale indaffarata a raccontare l’imminente caduta dell’“esercito del terrore”, lo Stato Islamico, o la riconquista lealista della Siria grazie all’alleato russo.

Nell’attualità di queste narrazioni non c’è spazio per una scintilla di luce, nel buio dell’oscurantismo religioso o di un regime, spinto verso la ricostruzione di un “paese delle meraviglie” da consegnare ai fedelissimi che lo hanno sostenuto in questi anni di guerra.

Fadwa Suleiman, alawita come gli Assad, non è stata fedele alle bugie del regime siriano.

Tutto era iniziato il 21 marzo 2011, lei che non faceva parte di alcuna rete di militanti, era stata chiamata da un amico a partecipare alle riunioni e ai sit-in di protesta della “Primavera araba” esplosa anche in Siria. Il 2 maggio manifestava in piazza al-Arnus (Damasco): “É stata una riunione tranquilla di donne davanti alla grande statua di Hafez al-Assad (padre dell’attuale presidente), abbiamo manifestato in modo non violento per fermare le uccisioni e l’assedio di Deraa”. Il regista siriano Meyar al Roumi, l’ha definita “una donna che ha fornito una diversa immagine delle donne siriane, lontano dagli stereotipi sul mondo arabo”.

E mentre i fedeli di Assad inneggiavano gli slogan “Solo Dio, la Siria e Bashar” e gli shebbiha (milizie fedeli agli Assad) lasciavano sui muri di palazzi distrutti le scritte “O Assad o bruciamo il paese”, Fadwa Suleiman nel quartiere al-Khaldiyah di Homs (dicembre 2011) smagrita e con i capelli tagliati corti arringava i manifestanti al grido di “Wahed, wahed, wahed, ash-shaab sury wahed” (“Uno, uno, uno, il popolo siriano è uno”).

Nelle frasi urlate da un piccolo palco improvvisato scandiva più volte la parola hurriyeh “libertà”. La libertà di una pazza visionaria e idealista, che l’aveva portata a tentare inutilmente di convincere la comunità alawita di Latakia e Tartus ad unirsi al movimento di protesta contro il regime. Considerava infatti la sua comunità una vittima della manipolazione del regime.

Seguendo questa pazzia, o il suo idealismo, nell’ottobre 2011 aveva raggiunto la roccaforte sunnita dell’insurrezione armata, i quartieri assediati di Homs, per evitare che la rivoluzione si appiattisse sulla dicotomia dello scontro alawiti (e minoranze) contro sunniti: “per evitare che la rivoluzione diventi una guerra confessionale”.

“Quando la rivoluzione è scoppiata, mi sono resa conto che ero siriana e il mio ruolo era quello di guidare le persone a non lasciare che fossero guidati verso la morte”, tentando di fare da collante tra gli alawiti e la comunità sunnita, su di un palco a Homs aveva invocato la Vergine Maria facendo cantare ai sunniti “O alawita, non ti preoccupare, il mio sangue è tuo” e agli alawiti “O sunnita non ti preoccupare, il mio sangue è tuo”.

Era consapevole di aver chiesto qualche cosa di radicale e forse folle, nel fragore delle armi e dei bombardamenti l’odio comunitario emergeva in superficie, non bastavano più le dita di una mano per contare i morti: “Quando mi sono trasferita a Homs ai primi di ottobre, tutti erano già armati e l’ambiente era in linea con il piano di confessionalizzazione della rivolta”.

Ma mentre il regime affermava che Homs era controllata da milizie salafite, Fadwa aveva visitato la città assediata, smentendo il racconto della Tv di stato siriana: “Sono qui a testimoniare che non ci sono gruppi armati salafiti che qui attaccano la gente, gli attacchi provengono solo dalle forze del regime”.

Aveva rotto il mito della comunità alawita unita attorno al suo leader, raccontava una rivoluzione che non era confessionale e per questo per il regime era più pericolosa dei combattenti stessi. I servizi segreti e l’esercito la cercavano porta a porta nelle case di Homs.

Un video del 10 novembre 2011 è il suo testamento dalla città ribelle, stanca ed emaciata, racconta le ricerche per arrestarla, “le persone vengono picchiate e torturate per ottenere informazioni e per localizzarmi. Se le forze di sicurezza del regime mi arresteranno sarò costretta a confessare in TV sul canale ad-Dounia, e ammettere la mia partecipazione a una cospirazione terroristica contro il regime siriano”.

Il fratello Mahmud, era stato arrestato e costretto a confessare in Tv che era un agente al soldo di un paese straniero.

Nello stesso video ribadiva la necessità di mantenere la rivoluzione sui binari del pacifismo: “Dichiaro la mia determinazione a continuare la lotta attraverso dimostrazioni pacifiche e lo sciopero della fame che ho iniziato l’altro ieri contro l’assedio di Homs. E per dimostrare le bugie del regime sull’esistenza di salafisti e gruppi finanziati per destabilizzare la Siria e sterminare le minoranze”.

Le sue istanze erano quelle di molti intellettuali e dei manifestanti non violenti scesi nelle piazze, “chiedo al popolo siriano di rimanere mobilitato e di continuare la loro lotta pacifica fino alla caduta del regime, per costruire uno stato democratico costruito sui principi di libertà e uguaglianza”.

Icona della rivoluzione e braccata dal regime era stata consigliata dai ribelli a lasciare la città, “ero diventata un bersaglio”; aveva lasciato i suoi compagni di sventura avvertendo i rivoltosi che avevano ceduto alla lusinga delle armi in modo profetico: “Vedrete, vi pentirete di esservi impegnati in questo percorso, ma sarà troppo tardi”.

Brutalmente represso dal regime, il movimento di protesta diventa, suo malgrado, una ribellione armata, nel marzo 2012 le armi affluivano da ogni parte: “Ciò che temevo è successo. Perché non volevamo che Bashar venisse sostituito da un altro dittatore o dall’estremismo religioso. Quello che chiedeva il popolo siriano era uno stato libero e laico (…)”.

Raggiunta Damasco agli inizi del 2012, era stata costretta nuovamente a fuggire fino a raggiungere il confine giordano e poi la Francia come esule.

Durante un’intervista nel 2014, le erano state mostrate le immagini che provenivano dai quartieri ribelli di Homs, ormai distrutti e resi un cumulo di macerie senza vita. Benchè fosse seduta nello studio televisivo una parte di lei aveva raggiunto la città devastata dagli scontri, il nastro dei ricordi si era riavvolto al 2011, forse aveva pensato alla fine di un’illusione, a ciò che poteva essere ma non era stato; era rimasta muta per dieci lunghi secondi, una statua di sale incapace di versare una lacrima.

Quel dolore sordo che l’aveva inchiodata di fronte a quella visione di morte, è forse lo stesso nemico che l’ha divorata dall’interno, abbattendo questa donna forte, che il regime non era stato in grado di sconfiggere.

Fadwa si è spenta il 17 agosto scorso, in Siria hanno vinto piccoli e grandi dittatori, ma le statue dei rais prima o poi cadono, l’eco degli eroi invece rimane per sempre, a loro è riservata l’immortalità.

Per lei che aveva detto “Sono pronta a morire per la libertà del mio paese”, le penne degli ignavi svelti a riportare la retorica dei vincitori hanno finito l’inchiostro.

Ma libertà, giustizia e diritti per i quali si è spesa valgono per tutti, vincitori e vinti, buoni e cattivi, per questo Fadwa Suleiman aleggia sopra tutti loro “nel buio abbagliante”. “Siamo i fantasmi di coloro che erano lì”.