Vita da fixer

Raccontare la guerra, rischiare la vita, per professionisti spesso dimenticati

di Milena Nebbia, da Erbil (Kurdistan iracheno)

Mi ha spostato l’appuntamento due volte, poi mentre la stavo già aspettando, mi ha scritto che sarebbe arrivata un’ora dopo. Ma decido di attendere perché mi è stata caldamente raccomandata da un rifugiato siriano che adesso lavora per l’Ong Terre des Hommes Italia.

E finalmente alle otto di sera giunge al Barista, un nuovo locale sulla Du Side Street, che di italiano ha solo il nome, ma che è luogo di incontro della comunità internazionale a Erbil.

E’ una bella donna, direi sui 35 anni, piuttosto raffinata nei modi, ma in abbigliamento casual. E’ arrivata con la sorella, che poi ci saluta e raggiunge degli amici nell’altra sala. Ha i modi spicci, va subito al dunque, vuole sapere esattamente cosa vorrei vedere a Mosul, quale parte, est o ovest e in particolare quali aspetti della guerra mi interessano.

E’ Lina, la mia fixer, colei che dovrebbe aiutarmi ad entrare nella città “liberata” dall’Isis, che vi aveva proclamato il Califfato.

E’ siriana, verrò a sapere, con studi a Damasco e un passato da giornalista in patria. Dopo aver lasciato la Siria durante la guerra civile, quando si poteva ancora entrare in Iraq, è arrivata ad Erbil. Nelle zone di guerra, la (o il, se maschio, ne vedrò altri nel tentativo di spuntare un prezzo più basso) fixer è colei che, di solito a sua volta giornalista, dietro compenso (una giornata a Mosul costa sui 500-600 dollari, a seconda di quello che si vuole vedere), fa da interprete, guida, ricercatrice di fonti e occasionalmente guardia del corpo degli inviati della stampa internazionale, giornalisti o foto e videoreporter.

Mi racconta che è un anno e più che fa questo lavoro, ha seguito la liberazione di Mosul est e ora per un mese quella di Mosul ovest e quest’ultimo è stato uno dei periodi più duri della sua vita, non solo per il rischio a cui è andata incontro, per le condizioni in cui si è trovata a vivere, ma per quello che ha visto.

Penso che abbia “un pelo così” sullo stomaco, ma in alcuni passaggi della storia che mi racconta, la voce le si fa roca, le lacrime le salgono in gola.

“Ho seguito passo passo i militari della Divisione Oro nella città vecchia per oltre un mese – dice – ho visto persone soffrire e morire, ho visto anche il coraggio dei soldati, lo sforzo di non mollare e arrivare fino alla fine, non lo dimenticherò mai”.

Aggiunge poi che l’Isis ad un certo punto ha iniziato ad usare le autobomba, i cecchini, mentre l’esercito iracheno ha risposto iniziando ad usare l’aviazione colpendo anche obiettivi civili, così la gente ha cominciato a fuggire.

“Ho visto anziani non riuscire più a camminare dopo tre anni passati in casa ed essere caricati sulle spalle dai giovani per scappare, ho visto un bimbo morto tra le braccia del padre che pensava dormisse, ho intervistato mogli e madri di combattenti dell’Isis che si sono arruolati per soldi”.

Lina è indomabile, l’indomani, mi dice, tornerà a Mosul con una televisione brasiliana. E’ consapevole dei rischi che corre e non lo fa per soldi (“lo puoi fare per soldi all’inizio – dice – ma se è solo per quello, dopo un po’ smetti, è troppo impegnativo e rischioso”), ma per passione e che spera di poter diventare una giornalista a tutti gli effetti (sembra che abbia già ricevuto qualche offerta in Europa).

Si ferma, accusa un forte mal di schiena dovuto all’uso prolungato del giubbotto antiproiettile, che in effetti con il peso che ha deve incidere sul suo fisico minuto. Poi riprende il racconto e denuncia che a partire dall’ottobre 2016 lo Stato islamico ha portato avanti una campagna sistematica di trasferimenti forzati, spostando migliaia di civili dei villaggi circostanti nelle zone di Mosul sotto il suo controllo per poi usarli come scudi umani, piazzati tra loro e i missili.

Poiché lo Stato islamico trasferiva civili nelle aree di combattimento e impediva loro di fuggire, le zone di Mosul ovest, le ultime controllate dal gruppo armato, sono diventate più affollate con l’infuriare della battaglia.

Le forze irachene e della coalizione non hanno adattato le loro tattiche a questa situazione e hanno continuato ad usare armi esplosive imprecise che hanno prodotto effetti su ampie zone di un ambiente fittamente popolato. Quindi c’è stata una serie di attacchi in cui le forze della coalizione e irachene non hanno colpito l’obiettivo militare designato, ma hanno distrutto o danneggiato obiettivi civili uccidendo o ferendo civili.

Quando le chiediamo qual è la situazione attuale nell’area liberata dice che sì, l’Isis è arretrato, ma non sradicato e la città non è sicura, anche se la gente, molta, vuole tornare, preferisce metà casa piuttosto che il campo. Ma la città è in rovina, specie la parte vecchia: l’acqua, l’elettricità mancano, non c’è possibilità di approvvigionarsi, i ponti sul Tigri, tranne uno, sono inagibili, qualche sfollato che ha tentato di rientrare è dovuto tornare nella tendopoli.

“Bisognerà cominciare una ricostruzione sociale e fisica – ha detto Fawaz Gerges, esperto di Medio oriente alla London School of Economics – l’Iraq e i suoi alleati dovranno lavorare per creare una forte e permanente forza di sicurezza e iniziare la ricostruzione, il cui costo, per la sola città vecchia si aggira sul bilione di dollari”.

Per quanto riguarda l’Isis – spiega poi Gerges – se è vero che in Siria e in Iraq sta subendo sconfitte militari a ripetizione, il fatto è che questo lo spingerà a reagire ovunque troverà spazi: Libia, Filippine, Afghanistan, Pakistan. In alcune zone ha cercato di ricucire i rapporti con componenti qaediste dissidenti (è il caso di alcune frange talebane). Lo smarcamento è nella sua tradizione. E lungo questo asse si sviluppa la minaccia in Occidente”.