E adesso, mambo o sardana?

di Andrea Geniola

 

Oggi, 11 settembre 2017, poco importerà se la Diada Nacional de Catalunya sarà più o meno partecipata delle precedenti.Oramai dal 2012 non fa più notizia se un milione, due o alcune centinaia di migliaia di catalani e catalane scendono in piazza per rivendicare l’indipendenza della Catalogna. Nel migliore dei casi questo fatto si è trasformato in una notizia quasi di costume, parte di una rituale normalità. Eppure in Europa non abbondano i movimenti capaci di aggregare numeri così imponenti di cittadini attorno a una qualsiasi rivendicazione.

La manifestazione di quest’anno, che come sempre presenterà un’attenta messa in scena frutto di una altrettanto accurata regia comunicativa, si caratterizzerà per una enorme X disegnata dai partecipanti, che starebbe a simbolizzare quella croce che gli indipendentisti sperano di poter marcare sul Sì della scheda del referendum per l’autodeterminazione.

Per carità, il ballo delle cifre comincerà subito. I detrattori parleranno di disfatta e fallimento mentre gli organizzatori di trionfo e “giornata storica”. Ma la manifestazione sarà semplicemente un tassello di un gioco che proprio durante l’ultima settimana potrebbe aver vissuto uno dei suoi ultimi capitoli.

Il parlamento autonomo catalano ha approvato infatti la legge referendaria e quella di transitorietà giuridica. La prima serve a convocare ufficialmente il referendum di autodeterminazione (in realtà è il Decreto 139/2017 ad attivare la Legge 19/2017 convocandolo) per il giorno 1 di ottobre chiedendo ai catalani se vogliono (o non vogliono) che la Catalogna diventi una repubblica indipendente dal Regno di Spagna. Questa decisione democraticamente votata dal parlamento di Barcellona è stata immediatamente impugnata e sospesa del Tribunale Costituzionale di Madrid.

Circostanza che mette tale legge fuori dalla legalità spagnola vigente. Secondo i piani del governo catalano e della maggioranza parlamentare che lo sostiene in caso di vittoria del No si andrebbe a nuove elezioni “regionali” per il rinnovo del parlamento autonomo, mentre in caso di vittoria del Sí entrerebbe in vigore la seconda legge in questione, con il compito di garantire una transizione legale e ordinata verso il periodo costituente della nuova repubblica.

È a nostro parere significativo il fatto che al centro del dibattito politico catalano e (soprattutto) spagnolo non vi siano le ragioni dei favorevoli e dei contrari a confrontarsi in un dibattito aperto e sereno circa i pro e i contro dell’indipendenza bensì l’opportunità politica e la correttezza giuridica della celebrazione stessa di un referendum.

Insomma, in un surreale intrigo tutto iberico, quella che doveva (e poteva) essere la soluzione al conflitto politico-ideologico e che a ogni latitudine è stato lo strumento per dare alla cittadinanza l’ultima parola in merito, in Spagna si è trasformato in uno scontro politico-istituzionale (con relativa crisi sistemica) di proporzioni considerevoli e conseguenze tuttora difficilmente computabili. Il governo di Madrid, sostenuto in questo da tutte le forze politiche spagnole eccetto la sinistra alternativa (Podemos, IU, movimenti di vario tipo…), ha negato qualsiasi possibilità negoziale in questo senso.

Poco importa se, facendo una media dei sondaggi e tenendo conto di quell’effetto “paura dell’ignoto” che ha contribuito a determinare la sconfitta degli indipendentisti in Scozia, pare difficile che gli indipendentisti possano riuscire a superare la soglia del 50% di voti favorevoli alla secessione. E così il referendum accordato e con tutte le garanzie è divenuto una prospettiva impossibile. È qui che si innestano a mio modo di vedere le due circostanze che condizionano la politica catalana (e spagnola) di queste settimane: il peculiare procedimento di approvazione delle leggi di cui sopra e la trasformazione del referendum in un potenzialmente gigantesco atto di disobbedienza civile.

In un altro esempio di surrealismo iberico, al centro del dibattito parlamentare di questa settimana non vi sono stati i contenuti, le posizioni, i progetti di futuro.

È giusto ammettere che questi sono venuti più spesso dai banchi della maggioranza indipendentista e più di rado da quelli delle opposizioni unioniste. E anche quelle forze favorevoli alla celebrazione di un referendum ma contrarie all’indipendenza (e mi riferisco a Podem e i cosiddetti “comuns”) hanno fatto fatica a mettersi su questa strada. Il dibattito è stato un esercizio di formalismo giuridico-parlamentare attorno ai regolamenti e loro interpretazione.

Mentre la maggioranza parlamentare faceva largo e spregiudicato uso dell’articolo 81.3 del regolamento, per introdurre all’ultimo momento le proposte di legge “incriminate” e approvarle il più rapidamente possibile per evitare che il Tribunale Costituzionale ne vietasse la discussione stessa a monte, l’opposizione faceva un esercizio di difesa del formalismo parlamentare spesso mostrando una concezione della democrazia come un esercizio formale fatto di cavilli e regolamenti.

Insomma, mi viene da chiedere, che democrazia è quella che utilizza gli strumenti del cosiddetto stato di diritto per impedire un referendum che potrebbe risolvere un contenzioso così profondo nell’arco di uno spoglio di voti? A tale proposito è estremamente interessante rilevare fino a che punto il discorso delle opposizioni si sia nutrito di tutti i grandi classici del catalanismo, con citazioni e richiami a quello che avrebbero fatto i padri della patria oggi, per nulla conformi a suo tempo a soluzioni secessioniste. O fino a che punto appariva in questi discorsi un giudizio inerentemente anti-sistema e quasi pre-rivoluzionario della questione catalana oggi, con la CUP disegnata come la vera artefice di tutto il processo indipendentista, forse non totalmente senza ragione.

In questo clima sono passati quasi inosservati i punti all’ordine del giorno riguardanti le speculazioni finanziarie e bancarie che in questi anni hanno messo sul lastrico migliaia di famiglie e pensionati oppure i risultati della commissione sulla cosiddetta Operación Cataluña. A pochi tra i banchi dell’opposizione interessava mettere in discussione i privilegi di banche e speculatori e a quasi nessuno interessava fare luce sul processo di fabbricazione di notizie e dossier in funzione anti-indipendentista svelata dai quotidiani “Público” e “Diario.es”.

Una volta convocato il referendum e impugnata la sua norma da parte del Tribunale Costituzionale le istituzioni dello Stato si sono mosse per mettersi alla caccia delle famigerate schede referendarie trilingue (catalano, castigliano e occitano aranese) perquisendo il personale di una tipografia, senza però entrarvi, o la redazione di un misconosciuto giornalino di paese. Mentre da Madrid si minacciava l’inabilitazione e l’apertura di procedimenti penali contro la presidente del parlamento catalano, Carme Forcadell, e di tutti i parlamentari coinvolti nella decisione di accettare la modifica dell’ordine del giorno secondo l’articolo 81.3 e da più parti si ventilava l’ipotesi di sospendere “a divinis” l’autonomia catalana per “sedizione”, l’immagine degli agenti della Guardia Civil a caccia di pericolosissime schede referendarie simbolizzava i limiti di molte democrazie formali, e non solo di quella spagnola.

La strategia del governo di Rajoy (in questo supportato da Ciudadanos e socialisti) sembra essere quella di far collassare il referendum piuttosto che mandare i carri armati a occupare Plaça de Catalunya.

Ovviamente tutto può sempre accadere ma questa sarebbe un’immagine che, sebbene ventilata ogni tanto da qualche nostalgico in uniforme, sarebbe poco vendibile sulle pagine dei giornali di mezzo mondo. Quello che invece sta mettendo in essere il cosiddetto costituzionalismo è un insieme di atti di sabotaggio tattico all’interno di una strategia complessiva di svuotamento e depotenziamento del referendum stesso, prima che del suo risultato. D’altronde, l’appello della vigilia della Diada alla cittadinanza di stamparsi da soli a casa la propria scheda elettorale risponde ai canoni di un massiccio atto collettivo di disobbedienza di massa piuttosto che alle coordinate di una serena giornata referendaria.

È che la questione si presenta oggi precisamente nei termini della disobbedienza civile e la grande domanda non è quale sarà il risultato dell’1 ottobre bensì quanti catalani andranno effettivamente a votare e in quanti di questi saranno disposti a rinunciare (almeno temporalmente) alle comodità e sicurezze di una società occidentale avanzata per difendere quel risultato referendario? O, detto in altri termini, coloro che non hanno nulla o poco da perdere (se non le proprie catene si diceva un tempo) probabilmente si comprometteranno fino in fondo ma coloro che hanno una posizione da difendere, una proprietà da conservare o altro, cosa faranno?

Vedremo i Mossos d’Esquadra (la polizia autonoma catalana) disobbedire la legalità vigente che hanno il dovere di far rispettare, e che fino a questo momento hanno fatto rispettare con relativo (e a volte eccessivo) rigore? Non è un caso, a mio parere, che le grandi associazioni padronali, l’alta borghesia barcellonese e pezzi consistenti di intellettualità accomodata, siano tutti variamente contrari all’indipendenza e alla celebrazione di un qualsiasi referendum.

È in corso una profonda battaglia ideologica, sebbene molti vogliano farci credere che il tutto starebbe nelle mani di irresponsabili incendiari (i nazionalisti catalani) mossi da chissà quale inconfessabile istinto.

Troppo spesso in Italia si osserva il processo in corso con gli occhi di quella stessa intellettualità nazionalizzata spagnola che la stampa ufficiale propone all’ignaro lettore come esperti od opinionisti super partes. È il caso del recente speciale dedicato dal Venerdì di Repubblica (n. 1536, 25 agosto 2017) alle questioni spagnole, in cui a partire dall’interesse generato dagli attentati di Barcellona di nemmeno una settimana prima il magazine si catapulta in un reportage sulla sconfitta di ETA, accompagnato da due interventi assolutamente fuori luogo di Fernando Savater e Xavier Cercas sull’attualità catalana.

Dico fuori luogo perché entravano a creare un parallelismo concettuale tra lotta armata (basca) e indipendentismo pacifico (catalano) che aveva come malcelato obiettivo esaltare il patriottismo costituzionale (spagnolo) e denigrare i nazionalismi sub-statali, per non parlare di quelli che rivendicano una soluzione referendaria e non già indipendentista. Secondo questa narrazione (legittima ma pur sempre narrazione al servizio di una ben determinata trincea) una secessione frantumerebbe il terreno dei diritti.

E se proprio si dovesse celebrare un referendum di autodeterminazione della Catalogna, questo dovrebbe celebrarsi in tutta la Spagna. È come affermare, mi si perdoni i paragone, che in una causa di divorzio uno dei due coniugi debba avere il diritto di decidere se l’altro/a può o meno chiedere il divorzio.

E se invece, al contrario, una Catalogna indipendente fosse uno scenario di diritti migliore rispetto a quello spagnolo, potendo magari condannare, in barba ad alcune leggi spagnole di inamovibile vigenza, i crimini di guerra dei franchisti tra 1936 e 1939 e la sistematica violazione dei diritti umani tra 1939 e 1977? E così restituire almeno la memoria a migliaia di persone e le loro famiglie… O se una Catalogna indipendente fosse, sotto la pressione dei suoi consistenti movimenti sociali, uno scenario di welfare o addirittura di lotte e conquiste sociali migliore e più avanzato di quello spagnolo?

A mio parere a volte è proprio l’assenza di pluralismo informativo e contraddittorio a creare un certo senso di impunità intellettuale, descritta magistralmente da Ignacio Sánchez-Cuenca nel suo La desfachatez intelectual. Escritores e intelectuales ante la política (2016), che fa dire cose che magari davvero oltre qualsiasi minimo senso della realtà.

Come da oramai lungo tempo si è dimostrato e problematizzato negli studi del settore, il patriottismo costituzionale non è altra cosa che un prodotto ideologico del nazionalismo di stato (o stato-nazionalismo). E nel caso spagnolo è oramai più che evidente che l’intangibilità della Costituzione viene a rappresentare una scusa piuttosto che una spiegazione. E le accuse di etnocentrismo che spesso vengono rivolte, a volte a ragione a volte meno, al nazionalismo sub-statale sono invece parte integrante della cultura di fondo di pezzi importanti del patriottismo costituzionale.

Non è un caso che il leader del PP catalano, Xavier García Albiol, commentasse giorni fa in questi termini via twitter l’appello ad andare a votare fatto dal vice-sindaco di Barcellona, Gerardo Pisarello: “Dovresti essere un po’ più grato al paese (la Spagna, nda) che ti ha accolto e dato un’opportunità”. Pisarello, che parla un catalano molto più fluido e corretto di Albiol, è originario dell’Argentina, e questa affermazione dice molto dell’etnicismo che si respira in non pochi settori dell’opposizione anti-indipendentista, e non solo quella di destra.

Nei prossimi anni i termini di questa battaglia ideologica e delle narrazioni che produce in entrambi gli schieramenti dovranno diventare oggetto di ricerca ma oggi sarebbe auspicabile cominciare a riconoscerne almeno l’esistenza.

Quello che invece importa qui ed ora è che chi sta mettendo lo stato ultraliberale spagnolo alle corde, mettendone potenzialmente in crisi le relazioni socioeconomiche che garantisce, è proprio il processo catalano, con tutte le sue contraddizioni. E sono gli stessi poteri forti che lo affermano e i loro rappresentanti politici come Ciudadanos, PP e settori del PSOE hanno fatto degli attacchi alla CUP come “acceleratore” del processo il loro pane quotidiano.

E questo sta accadendo con la partecipazione poco entusiasta di settori della borghesia catalana che non hanno avuto altra scelta che scoprirsi indipendentisti per non restare fuori dalla storia del loro paese. Da molte parti si è sottolineato che l’attuale processo indipendentista si sarebbe trasformato in “processismo”; una sorta di “procrastinated rape” da feuilleton d’appendice in cui determinate forze conservatrici cercano di restare al centro dello scenario politico rilanciando obiettivi massimali di tipo nazionalistico, da una parte, e continuando a governare secondo i propri interessi di classe, dall’altro.

Questo è certamente vero ma il passo analitico successivo dovrebbe essere quello di aggredire questa situazione per quello che è e per le potenzialità che offre. E il modo migliore per porre fine a questo “processismo” è risolvere il contenzioso. Per far questo la CUP sostiene che è necessario buttar giù da un dirupo il furgone esausto del “processo” e aprire una fase di disobbedienza che sia al tempo stesso costituente. Invece i “comuns” sostengono che è necessario convincere lo Stato (magari un giorno governato dalle sinistre) a concedere un referendum legale e con tutte le garanzie.

Nel primo caso, esistono forti dubbi sul fatto che un movimento civico e trasversale fatto di cittadini poco disposti al sacrificio militante possa reggere l’impatto di un conflitto dagli esiti imprevedibili. Nel secondo caso, l’alleato dei “comuns” a Madrid (Podemos) ha già tentato senza successo di portare il PSOE sulla via del referendum. Anzi, i socialisti spagnoli sono oggi totalmente allineati con il PP sulla difesa dell’unità della nazione spagnola. Insomma, nelle prossime settimane sapremo se “adesso comincia il mambo” costituente come recita lo spot della CUP o se invece torneremo a una stanca e noiosa sardana autonomica.

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