L’IMPOSSIBILE INDIFFERENZA

di Filippo Furri

Fotografie di Oskar Landi, www.oskarlandi.com

 

Non sapere, non voler sapere è la tecnica più banale per non essere coinvolti, per non essere interpellati personalmente. L’hanno chiamata indifferenza, ed è stato uno degli ingredienti essenziali di alcune delle pagine più cupe della storia. Rendere invisibile o allontanare dallo sguardo, smorzare la voce dei testimoni è la strategia più banale per occultare fenomeni « problematici » ed eventuali responsabilità.

 

Vittime della frontiera

Marcella delle Donne parlava già nel 2004 di « Un cimitero chiamato Mediterraneo », mentre Gabriele del Grande dal 2006, attraverso il suo blog Fortress Europe, ha recensito uno dopo l’altro i naufragi e le morti alle frontiere dell’Unione europea, raccogliendo anche tutte le tracce di incidenti e decessi apparse nei media a partire dal 1988.

Negli ultimi dieci anni, il numero delle vittime alle frontiere dell’UE non ha smesso di crescere, lungo le rotte che di volta in volta si sono modificate in ragione di evoluzioni geopolitiche, come il conflitto in Siria e la destabilizzazione del Maghreb dal 2011, e del dispiegamento del dispositivo di controllo e sorveglianza delle frontiere europee guidato dall’agenzia Frontex: dalle Canarie al Mediterraneo occidentale (Spagna/Marocco), dal Mediterraneo centrale (Italia e Malta/Tunisia e Libia) a quello orientale (Grecia/Egitto e Turchia).

Alle « vittime del mare », come se queste morti fossero imputabili solo alla fatalità e alla pericolosità della navigazione o a « trafficanti » senza scrupoli, si aggiungono le vittime, forse ancora più difficili da recensire, inghiottite dal deserto o scomparse in centri di detenzione arbitraria che proliferano, anche con il benestare o il tacito consenso dell’UE, in regioni destabilizzate politicamente come la Libia oggi.

Se l’aumento del numero delle vittime è inevitabilmente connesso al numero delle persone in migrazione verso l’Europa, è innegabile che questa cifra sia legata anche alle condizioni sempre più proibitive del viaggio, alla speculazione che su questi viaggi costruiscono reti transnazionali di « trafficanti », e a scelte quantomeno criticabili dei paesi dell’UE, che hanno progressivamente ostacolato il lavoro di salvataggio (SAR) svolto da numerose ONG internazionali nel Mediterraneo. L’intervento delle ONG umanitarie, che dal 2014 al 2017 era progressivamente andato a colmare il vuoto prodotto dalla fine dell’operazione di soccorso in mare Mare Nostrum organizzata dal governo italiano tra il 2013 e il 2014, sostituita dal 2015 da un’operazione europea essenzialmente limitata al controllo (Eunavfor Med), è stato delegittimato da un accanimento politico e mediatico volto a screditare il loro operato. Le ONG sono state accusate di collusioni con le reti di trafficanti, che si scoprirà essere piuttosto legate alle varie fazioni in conflitto in Libia, La neutralizzazione del loro ruolo è avvenuta di fatto attraverso l’intensificazione del processo di esternalizzazione dei controlli migratori da parte dei governi UE : gli accordi di cooperazione siglati con i poteri che controllano militarmente le zone di partenza/transito, sulla falsariga dell’accordo UE/Turchia, delegano a questi ultimi il controllo e la gestione delle partenze delle imbarcazioni, affidando loro anche la gestione di centri di accoglienza/detenzione secondo parametri che violano i più basilari canoni del diritto internazionale relativi a migranti, tutti potenziali richiedenti asilo.

Cimitero di Catania, maggio 2017

Stragi dimenticate e iniziative istituzionali

Le stragi nel Mediterraneo sono passate per anni quasi sotto silenzio:si pensi all’inchiesta di Giovanni Maria Bellu « I fantasmi di Portopalo » (2001). E la morte dei migranti in mare è stata progressivamente relegata a tabù: i ristoratori di Lampedusa non esitavano a spiegare che il pesce servito proveniva dalle coste nord dell’isola, sottintendendo nemmeno troppo velatamente che gli animali non si sarebbero nutriti di carne umana.

Solo nel 2013, a causa del duplice naufragio del 3 e 11 ottobre, uno dei quali a qualche decina di metri dalla costa di Lampedusa, costati la vita complessivamente ad oltre 600 persone, l’opinione pubblica, i media e il mondo della politica, che per convenienza avevano fino ad allora trascurato la situazione, hanno dovuto prendere atto della drammaticità del fenomeno, concentrandosi tuttavia essenzialmente sulle due stragi, piuttosto che inscriverle in una dinamica più vasta che comporta uno stillicidio quotidiano di vite umane.

L’ondata di indignazioni pubblica ha generato una serie di inchieste e di ricerche accademiche, volte a « misurare » l’ampiezza del fenomeno (Missing Migrants), ed è corrisposta ad un impegno diretto di alcune istituzioni. La Croce Rossa italiana attraverso il comitato locale di Catania nel 2015 ha intensificato e strutturato le operazioni del proprio servizio di Restoring family Links che si attiva per ripristinare i contatti tra familiari dispersi a causa di naufragi o durante le operazioni di recupero in mare. Inoltre, l’ufficio del Commissario straordinario per le persone scomparse del governo italiano, in collaborazione con il Laboratorio di antropologia forense dell’università di Milano (Labanof), ha intrapreso un lungo lavoro di identificazione dei corpi delle vittime dei due naufragi dell’ottobre 2013. Il team di ricerca procede attualmente anche all’identificazione delle vittime del naufragio del 18 aprile 2015. Questo è stato possibile benché l’imbarcazione, con più di 500 corpi al suo interno, sia stata recuperata solo l’anno successivo, grazie ad una presa di posizione significativa del governo italiano e ad uno sforzo tecnico logistico della marina militare.

La volontà di recuperare e dare un nome a queste persone, attraverso una collaborazione tra l’Ufficio per le persone Scomparse, il Labanof e altri poli universitari, la Croce Rossa italiana e l’ICRC, è tanto più significativa se si considera che per la Procura di Catania il recupero del relitto e dei corpi delle vittime risultava superfluo perché non necessario ai fini dell’indagine e all’individuazione dei presunti responsabili del naufragio (rapidamente incriminati e processati nel maggio del 2016).

Cimitero di Catania, maggio 2017

Corpi estranei

Di fronte alla banalizzazione della morte in mare, che rischia di essere ridotta ad effetto collaterale ed oggetto di statistiche nella logica dominante di controllo e blocco del fenomeno migratorio, le iniziative istituzionali volte a standardizzare e migliorare le operazioni di identificazione delle vittime risultano rilevanti. Tuttavia, per il momento esse sono indirizzate principalmente ai tre naufragi del 2013 e 2015, e non sono in grado di articolare un lavoro esteso a tutti i casi di naufragi e di decessi in mare repertoriati. D’altra parte, il lavoro di identificazione è comunque limitato ai corpi recuperati durante le operazioni di soccorso o in altre situazioni, mentre risulta sempre più elevato il numero dei dispersi. Si pensi che per il 2016 l’UNHCR ha stimato che il 74% delle 5022 vittime risulti « missing ».

La gestione numerica e statistica di questi corpi « altri », « estranei », la gestione del recupero, dell’identificazione, della sepoltura e dell’eventuale riconoscimento di persone migranti decedute in mare, non è diversa, se non per un maggiore cinico fatalismo, dalla gestione dei corpi viventi di migranti/richiedenti asilo inseriti « anonimamente » e meccanicamente in dispositivi umanitari di accoglienza che tendono a depersonalizzare e desoggettivare il soggetto migrante, riducendolo ad oggetto (di accoglienza, di compassione, di cure, di assistenza, …) e spesso a fonte di guadagno speculativo, e di buona coscienza. Il corpo senza nome, « estraneo », ridotto a cifra e gestito in quanto tale, riduce di fatto i margini di reazione empatica, a tal punto che la morte di decine di migranti in mare risulta decisamente meno significante e intollerabile della morte di compatrioti, o giovani europei, vittime di eventi egualmente tragici altrove.

 

Il sostegno della società civile

In questo contesto, l’implicazione della società civile e l’azione di associazioni che operano a sostegno dei migranti in Europa sono inscritte in reti di solidarietà tra paesi di origine, paesi di transito e paesi di arrivo. È essenziale rivendicare la singolarità di ciascuna delle vittime, la sua storia, anche attraverso la mobilitazione delle reti familiari e di prossimità, volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema, a fare pressione affinché le responsabilità materiali e politiche di queste morti vengano messe in luce, e offrire alle famiglie delle vittime un supporto nel difficile percorso di ricerca di familiari dispersi.

Il progetto Nuovidesaparecidos è attivo dal 2014 per rivendicare « verità e giustizia per i nuovi desaparecidos nel Mediterraneo », e attraverso attività di denuncia e di informazione preme perché venga fatta luce non solo sul destino delle persone scomparse ma anche sulle cause e sulle responsabilità di queste morti ; questa attività si aggiunge ad un lavoro di ricerca e di inchiesta, svolto da universitari e giornalisti, volto ad attribuire queste responsabilità, come nel caso del progetto Left to Die boat, o dell’inchiesta di Fabrizio Gatti sul naufragio dell’11 ottobre 2013. L’attività di ricerca si sovrappone ad un’attività di prevenzione, in particolare attraverso il progetto AlarmPhone della rete di attivisti Watchthemed: un numero di emergenza per i migranti in navigazione sul Mediterraneo, che in caso di allarme permette di trasmettere l’SOS alle autorità competenti, registrando la richiesta e sollecitando l’intervento di salvataggio per evitare eventuali omissioni o ritardi.

Le attività di visibilizzazione si susseguono, cercando di informare la cittadinanza e di interpellare le istituzioni. Come il 28 aprile 2015, quando un centinaio di attivisti e di membri associativi hanno esposto davanti al Parlamento europeo di Strasburgo la lista delle 17.000 persone morte o disperse cercando di raggiungere l’Europa. Già nel 2011 si è costituita la coalizione internazionale Boats4People, che riunisce numerose associazioni europee ed africane impegnate in un lavoro di sensibilizzazione e di denuncia. La coalizione, che nel 2012 ha messo in mare un veliero tra l’Italia e la Tunisia per « allertare sull’ecatombe nel Mediterraneo », ha prodotto una serie di documenti informativi e si è progressivamente orientata anche sul possibile sostegno da offrire alle famiglie. Nel 2017, dopo due anni di ricerche, di confronto con le autorità e con le associazioni e i soggetti implicati sul terreno, B4P ha pubblicato una Guida ad uso delle famiglie e delle persone che le accompagnano nelle ricerche di familiari morti e dispersi in mare.

La guida, focalizzata sul Mediterraneo centrale e sulle procedure di recupero dei corpi, di identificazione e di sepoltura da parte delle istituzioni italiane, cerca di offrire alle persone alla ricerca di familiari morti o dispersi in mare un quadro complessivo delle azioni da intraprendere. Da una parte, incentivandole a rivolgendosi alle istituzioni come le reti internazionali della Croce rossa /Croissant rouge che collaborano con l’Ufficio del Commissario per le persone scomparse del governo italiano, dall’altra offrendo le indicazioni per intraprendere le ricerche, richiedendo l’apertura di un’inchiesta su un caso specifico, o effettuando dichiarazioni di scomparsa che non possono essere evase e ignorate dalle istituzioni. In generale, l’approccio è quello di offrire alle famiglie, e di elaborare con loro, gli strumenti per dei percorsi di empowerment e di autonomizzazione che, complementari ai percorsi istituzionali in materia, permettano una « politicizzazione » della questione che vada al di là della dimensione prettamente umanitaria.

Ritornare a una dimensione umana!

Riportare la questione dei morti e dispersi in mare a una dimensione umana, singolare, e inscriverla contemporaneamente nel contesto più generale delle cause e degli effetti del fenomeno migratorio, implica un’estensione della questione che assume toni inevitabilmente meno neutri e strettamente statistici. La riflessione sulla gestione dei corpi, sulle pratiche di sepoltura dei migranti non identificati e sulle relazioni con le famiglie alla ricerca di familiari scomparsi comporta vari livelli di intervento, in atto, o possibili e necessari : una riflessione di ordine giuridico, ed un conseguente lavoro di accompagnamento legale e di creazione di strumenti giuridici adeguati, sulla dignità della morte e la sfera dei diritti attributi ed attribuibili al defunto (condizioni di sepoltura, diritto all’identificazione, possibilità di rimpatrio) da una parte e dall’altra sull’impatto diretto o indiretto sulle famiglie nei paesi di origine o nei paesi di arrivo dei corpi (certificato di scomparsa e attestazione di morte, e conseguente impatto su questioni patrimoniali, amministrative, burocratiche come eredità, matrimoni, pensioni, …). Alla dimensione strettamente legale, si aggiunge una riflessione più ampia che tenga in conto della dimensione sociale, economica e cultuale : in particolare, il lavoro a contatto con le famiglie e le associazioni che le supportano, ha permesso di evidenziare la necessità di strutturare e implementare strumenti di accompagnamento, soprattutto di ordine psicologico, per consentire di affrontare il percorso di ricerca e un’esperienza di lutto tanto più dolorosa e difficile perché elaborata a distanza e troppo spesso in assenza di corpo.

In termini più generali, risulta sempre più necessario un lavoro di riflessione e di intervento su questi temi, già intrapreso e da approfondire, incentrato sul vissuto delle persone, sulle reti di storie, di nomi e di relazioni che costituiscono la dimensione umana e sociale dell’esperienza migratoria, anche nella dimensione tragica della morte e della scomparsa in mare. Anche perché questa esperienza drammatica, benché « astratta » dal discorso politico-mediatico , ha inevitabilmente un impatto, ancora oggi difficile da considerare, sulla vita quotidiana delle persone, sulla dimensione psicologica, affettiva e cognitiva di chi si confronta con questo orizzonte: e non si tratta solo dei migranti che prendono il mare o delle famiglie che sono alla loro ricerca. Nel gennaio del 2014, durante i giorni della redazione della Carta di Lampedusa, con alcuni amici siamo andati a presentare il documento nel liceo dell’isola. Solo di fronte agli sguardi, alle domande di quegli adolescenti, abbiamo realizzato come questo scenario di morte, la possibilità quasi scontata di trovarsi di fronte ad un cadavere senza nome di un ragazzo in spiaggia, li avesse accompagnati dalla prima infanzia, mettendoli di fronte ad un’esperienza di una violenza e di una disumanità inaccettabili.

 

CREDIT: LUCA PONCETTA, TERRORE, (2017, Frame da video stampato su poliestere nautico)* La bandiera coglie l’attimo in cui Petah Sabally, gambiano di 22 anni, si lascia annegare nel Canal Grande di Venezia, nel gennaio del 2017. L’immagine non nitida evoca lo sguardo dello “spettatore”, e traduce la tensione tra la messa a fuoco/zoom spettacolare/pornografico e la distrazione, la possibilità di non vedere nonostante il dramma si svolga nel centro di Venezia. L’opera è stata esposta nel luglio 2017 a Salonicco all’interno dell’installazione My eye is my Country, in occasione della rappresentazione di MEDEE. Sul varcare del Teatr Zar (Grotowski Institute)

 

Filippo Furri è antropologo. Lavora da anni sulla nozione di città-rifugio ed è membro della rete Migreurop e della coalizione Boats4People.

 

 

Salva

Salva

Salva