NON PIANGIAMO, IL DIRITTO ESISTE ED È LÀ

di Lorenzo Scalchi

L’appello

«Mi appello a tutti gli italiani, in particolare alle madri, affinché ci aiutino a cercare i nostri figli, dispersi dopo il loro approdo sulle coste italiane. Viviamo dall’altra parte del mare. Siamo vicini. Vorrei che comprendiate quanto abbiamo sofferto!». Mounira Ben Chagura si presenta come la madre di Amine Ben Hassine, giovane tunisino scomparso nel 2010, dopo aver raggiunto Pantelleria. Mounira è anche la rappresentante dell’associazione Almassir Les Jeunes Méditerranée, che unisce oltre cento famiglie nella ricerca della verità sul destino dei propri figli o dei propri parenti, scomparsi durante la traversata del Mediterraneo o sul territorio italiano.

Il 9 settembre 2010. Amine, giovane universitario di Biserta, s’imbarca per l’Italia e approda dieci giorni dopo a Pantelleria. È il periodo della rivoluzione tunisina, che influisce sulla partenza di Amine. La madre lo descrive come un militante di sinistra costantemente sotto il controllo della polizia. Sull’isola italiana Amine incontra uno zio. Non c’è un punto interrogativo. «Abbiamo le prove del suo sbarco» afferma Mounira «poi, più niente, so solo che mio cugino l’ha visto al posto di blocco della polizia».

Da sette anni la famiglia pendola tra Tunisia e Italia alla ricerca delle ragioni di questa scomparsa. Nel 2012 Mounira s’incarica di intensificare le ricerche, trascorrendo fino a otto mesi tra Roma e la Sicilia. Sarà progressivamente accompagnata da altre donne, anche loro associate al gruppo di Almassir. Si supportano mutualmente, umanamente ed economicamente. Mounira è la rappresentante dell’associazione ed è la persona che ha una maggiore disponibilità finanziaria per organizzare un aiuto collettivo: sono solitamente piccoli finanziamenti alle famiglie più in difficoltà. «Quando finisci i soldi devi tornare in Tunisia, racimoli qualche risparmio e appena puoi torni in Italia».

Tenacemente e con i giusti appoggi, arrivano a incontrare presidenti, ministri, parlamentari, giornalisti. Ricorda, tra tutti, l’aiuto del parlamentare Luigi Manconi: «Ci ha aiutato a inviare ben cinque rapporti ai due governi, italiano e tunisino, ma né l’Italia né la Tunisia hanno collaborato. Quello che vogliamo è la riapertura del dossier che tratta la scomparsa di molti dei nostri ragazzi. Questo dossier esiste e si trova ad Agrigento». Un dossier che, tuttavia, nessuno vuole aprire. Nessuno lo vuole aprire e nessuna motivazione sembra essere comunicata, racconta Mounira, che si sveste ora del tono sommesso del racconto, per cercare, quasi disperatamente, una qualche responsabilità da attribuire: «Chi è che non vuole aprire il dossier? La polizia, i carabinieri, la mafia, i partiti italiani di destra? Chi?».

La grande sala conferenza in cui mi trovo è piena di persone, in questi giorni a Tunisi. Movimenti sociali, attivisti e un pubblico interessato dibattono sui movimenti migratori nel Mediterraneo. Un uomo dal pubblico esordisce riferendosi al problema dei morti in mare. A sentire quella parola, morte, Mounira fa un cenno alle altri madri sedute in platea, le quali immediatamente alzano le gigantografie dei loro figli, dei loro famigliari: «Non sono morti, sono dispersi!» urlano le madri, in un vortice di rabbia e pianto. L’avvertimento è chiaro: se parlerete ancora di morte, saremo qui a protestare.

La fuga, l’attesa e la colpa

I figli di queste donne sono chiamati ḥarrāga, termine che significa “coloro che bruciano”. Ḥarrāga sono tutti i migranti illegali verso l’Europa. Bruciano la legge, bruciano le frontiere. Negli anni Novanta era consuetudine bruciare il proprio documento per non essere identificati o espulsi. «Il fenomeno delle migrazioni irregolari appare con la chiusura delle frontiere e l’apparizione del visto Schengen. Si tratta di un fenomeno parallelo alla migrazione legale, accessibile solo ai più ricchi, dato il costo elevato del visto. Nel 2011 il rilancio securitario dei governi tunisino ed europeo ha indotto molti passeurs, gli organizzatori dei viaggi irregolari, a disporre meglio delle proprie reti e dei propri mezzi» mi spiega Wael Garnaoui, psicologo e membro dell’associazione Psychologues Solidaires. Sono circa 25.000 gli ḥarrāga partiti per l’Europa tra il 2011 e il 2012. Si tratta di giovani di bassa estrazione sociale che, in pieno contesto rivoluzionario, diventano simboli della rivoluzione da esportare e la fuga è descritta con parole quali “rottura”, “impeto”, “rabbia”, “rivoluzione”.

Questa energia e vitalità si scontra oggi con un quotidiano e malinconico silenzio, con l’inquieta presenza-assenza di un posto vuoto a tavola.

Nella consumazione dei pasti famigliari, non si riesce del tutto a elaborare il dolore per la perdita di un figlio, mi spiega Wael. Il processo di elaborazione comprende solitamente tre fasi: lo shock; l’accettazione; l’integrazione della morte. «Queste persone restano, dopo otto anni, ancora nella fase dello shock». Senza la verità, senza il corpo, senza una testimonianza, non è possibile alcuna pratica di sepoltura, nessun rituale di integrazione e di separazione completa dal defunto.

Le conseguenze di questo trauma possono essere diverse, a partire dalle forme di delirio. Wael legge alcuni dei sintomi annotati con precisione nei suoi dossier di psicologo. «Molti famigliari non si recano più in spiaggia perché il mare è diventato simbolo di morte. Frequenti sono i casi di donne che restano giorno e notte attaccate allo schermo della tv per cercare, nelle trasmissioni italiane, un viso a loro famigliare. Altri, infine, non possono più cibarsi di pesce, tanto complessa è la convinzione che siano stati i pesci ad aver mangiato i propri figli. L’associazione simbolica è banale quanto radicale. È un senso di colpa atroce: averli lasciati partire è come averli mangiati. Le famiglie, in queste condizioni, possono esplodere, perdendo altri pezzi. Sono, infatti, diversi i casi di madri che vietano ogni festeggiamento nella propria casa. In molti sono i fratelli che vogliono evadere da questo clima di prigione e di cimitero che, oramai, la loro vita famigliare ha assunto».

 

Le famiglie come soggetto politico

Wael fonda nel 2013 il supporto psicologico dell’associazione Psychologues Solidaires. Da sempre il suo interrogativo sul come organizzare un supporto psicosociale deve tenere conto, non solo di problematiche famigliari specifiche, ma soprattutto della dimensione politica che questo fenomeno ha assunto: la progressiva politicizzazione delle famiglie. «A distanza di anni molte famiglie riescono ad avvicinarsi all’idea che i propri cari siano morti. Questo è un buon risultato» sostiene Wael. Tuttavia, questa parziale elaborazione del lutto non sempre si completa in un contesto in cui la stessa perdita diviene oggetto politico.

Nella Tunisia post-rivoluzionaria le occasioni per conquistarsi una nuova posizione sociale possono servirsi della ricerca di verità portata avanti dai parenti delle vittime delle frontiere. «Sono numerose le associazioni tunisine ed europee che promettono giustizia, organizzano manifestazioni politiche per destabilizzare il sistema e poi, finiti i finanziamenti dei progetti, se ne vanno» contesta Wael. «Questo fenomeno è spesso finanziato dall’Europa. Si rivela abbastanza inefficace per la causa e rischia di scuotere inutilmente le persone coinvolte, riattivando traumi elaborati con difficoltà per molti anni».

Il sistema di finanziamento che proviene dall’Unione Europea è anche il bersaglio contro cui si scaglia Imed Soltani, responsabile dell’associazione tunisina La Terre pour Tous. Zio di due ragazzi scomparsi poco dopo lo sbarco in Italia, Imed è senza freno quando mi parla dell’ingerenza di molte ong europee, di Frontex e dei governi europei, responsabili della chiusura delle frontiere. «Con i loro finanziamenti stanno dividendo le famiglie delle vittime. Non posso definirmi contento di come lavorano alcune associazioni di famigliari tunisini, perché quando entri in rapporti stretti con la politica tutto può cambiare». La sua reazione permette di decifrare una delle facce di questa mobilitazione permanente: i famigliari di vittime che, divenuti importanti punti di riferimento politici, incontrano ministri, fanno missioni, raccolgono finanziamenti.

Tuttavia, per mobilitazione permanente s’intende anche una straordinaria forza propulsiva che congiunge le due sponde del Mediterraneo, dichiara Imed: «Grazie a molte persone della società civile italiana siamo entrati in contatto con numerosi esponenti delle istituzioni, elaborando dossier e costruendo un lavoro giuridico non indifferente. Gradualmente abbiamo ottenuto dei contatti quasi costanti con le istituzioni italiane adibite alla gestione delle persone scomparse. Obiettivo: fare pressione sulla riapertura dei dossier dei cari e conoscere la verità sulla loro sorte».

 

Noi non dobbiamo piangere, non dobbiamo piangere in pubblico, perché il diritto c’è ed è là. Bisogna continuare a lottare ogni giorno contro chi fa avanzare le frontiere, che, non per tutti, ma per molti, non sono più un luogo ma una condanna, un rimorso, una colpa. «Se volete veramente fare qualcosa per noi, fatela con noi. Se parlate di noi, non fatelo senza di noi» mi saluta Imed con una mezza proposta e un mezzo avvertimento.

 

 

 

Salva