Cronache dal Naga

Tre testimonianze dal Naga, tre temi, il mare, le ferite e l’utenza, raccontati come degli incontri che hanno cambiato chi li ha vissuti. Perché questo è proprio quello che facciamo ogni giorno: ci lasciamo contaminare e arricchire dal coraggio, dalla paura, dalla fiducia, dalla tristezza, dalla speranza, dalla gioia, dalla preoccupazione e dalla forza delle persone che incontriamo. E traduciamo poi questi incontri in rivendicazioni collettive.

 

Mare salato

A, nigeriana, approdata in Italia a ottobre: “Ma il mare della Sicilia è salato?”
S, volontaria Naga: “Il mare della Sicilia è salato, sì. Tutto il mare è salato”.
A (sgranando gli occhi profondissimi): “Tutto il mare?”
S: “Tutto il mare, te lo assicuro”.
A ha poco più di 20 anni. Del suo viaggio non ha voluto raccontarci molto.
“Quando mi hanno detto di venire in Italia, io ero convinta che ci avrei messo un paio di ore in macchina”, ci ha raccontato.
E invece ci ha messo giorni: il deserto, il mare di mezzo.
Di cui non ci vuole dire niente. Mai una parola sul viaggio.
Perché lei ora sì, è qui.
#dirittodipartire
#dirittodiarrivare

Una ferita

“Mi fa male qui”.
Indica la ferita che ha sotto l’ombelico.
È stato operato un anno fa. Ha già fatto un’ecografia di controllo. Non ha nulla. L’operazione è andata bene e anche l’ecografia.
“Mi fa ancora male. Non riesco a dormire, sono dimagrito”.
Si sdraia sul lettino.
È alto e il suo corpo emana una forza che sta però svanendo: il corpo di un uomo forte ricoperto da una pellicola di fragilità.
La visita all’addome conferma che non sembra ci sia niente, proprio lì, accanto all’ombelico.
“Mi fa male la ferita… e poi penso troppo…”
“A cosa pensi?”
“A miei figli e a mia moglie… e non riesco a dormire”.
“Dove dormi?”
“Per strada da quattro mesi… La mia domanda d’asilo è stata respinta e non ho più un posto dove stare”.
Con le parole iniziano a uscire anche le lacrime, le lacrime di un uomo forte che frontiere, leggi e accordi internazionali hanno reso vulnerabile.
Se ne va promettendo di tornare la settimana prossima.
La nostre cure, la nostra accoglienza e le sue lacrime non avranno forse fatto passare il dolore alla ferita, ma, almeno, hanno reso possibile individuare dov’è posizionata quella ferita: non all’ombelico, ma più in alto. A sinistra.

 

“Utenza”

Mercoledì pomeriggio. Come tutte le settimane arrivi in Har e ti fai subito prendere dalle varie richieste. A un certo punto ti passano il telefono, una signora che stai aiutando per la richiesta asilo ti chiede se può passare perché la burocrazia ha creato nuovi ostacoli. Le dici che la aspetti più tardi ma ti passa subito di mente: nuovo turno, nuovi utenti, avanti il prossimo. Arriva, un’ora dopo. Ti aggiorna sulla situazione e tu provi a dare delle risposte convincenti. Ci provi sempre. Prima di salutarsi ti dice ‘Ci sarebbe un’ultima cosa se non ti dispiace’ e tu già immagini si tratti di qualcosa di assurdo per cui non avrei una risposta altrettanto convincente. Invece lei ti sorprende tirando fuori un barattolo di dulce de leche fatto in casa come regalo proprio per te perché sa che ti piace, perché sei argentina e ha ragione quando ti dice che ti “scorre nelle vene”. E in questi casi capisci che parlare di “utenza” è estremamente riduttivo.