Il bacino maledetto. La dimensione della marginalità in Tunisia

La ricerca di Stefano Pontiggia esplora in molteplici aspetti il senso della “marginalità” nella cittadina di Redeyef nell’interno tunisino, teatro di lotte e proteste nel 2008 e nel 2011

di Clara Capelli

Nel 2008 il bacino minerario di Gafsa, profondo interno della Tunisia, fu teatro di accese proteste contro le drammatiche condizioni economiche dell’area, la corruzione dilagante e la cronica mancanza di qualsivoglia prospettiva di lavoro e benessere. Le manifestazioni furono violentemente represse nel silenzio della stampa nazionale e internazionale.

Poco più di due anni dopo, in un’altra zona dell’interno, Sidi Bou Zid, il giovane venditore ambulante Mohammed Bouazizi si diede fuoco in seguito al sequestro del suo carretto, innescando una serie di manifestazioni e lotte che hanno cambiato il volto di tutta la regione.

Da allora le “regioni marginalizzate” – da sempre ignorate o deliberatamente pauperizzate dal governo centrale – sono divenute un importante oggetto di studio da parte di numerosi esperti di Tunisia.

Il bacino maledetto. Disuguaglianza, marginalità e potere nella Tunisia postrivoluzionaria (ombre corte, collana “Etnografie”) dell’antropologo Stefano Pontiggia figura i fra i lavori più originali sull’argomento, esplorando in dettaglio Redeyef, cittadina del bacino di Gafsa e cuore delle rivolte del 2008.

Strutturato in sette capitoli per sette nodi tematici, il libro – basato sulla ricerca di dottorato dell’autore – racconta all’interno di un robusto apparato teorico la storia della “marginalità” di Redeyef, “epitome di una Tunisia povera, disperata e militante”, come viene descritta nelle prime pagine. Una Tunisia contrapposta ai quartieri “centrali” (non necessariamente in senso geografico) della capitale e alle zone costiere del turismo e degli investimenti esteri: costruita su un passato di sfruttamento, intrappolata in un fisso e asfissiante presente privo di opportunità, ma che periodicamente insorge fra lotte e proteste.

Il quadro offerto è estremamente interessante, con un solido tessuto analitico che si integra a uno sfaccettato racconto umano di disoccupati e avventori di cafè, attivisti e sindacalisti, migranti di ritorno e commercianti.

Pontiggia inquadra Redeyef nelle dinamiche dell’economia coloniale durante il protettorato francese, basata sull’estrazione di fosfati, evolutesi dopo l’indipendenza in nuove forme di sfruttamento da parte del potere politico-economico del Paese senza alcuna redistribuzione verso le periferie. La Compagnie des phosphates de Gafsa (CPG) diventa l’elemento dominante di questa economia monoproduttiva, non solo in quanto unico bacino di impiego per la zona, ma anche dal punto di vista sensoriale, come emerge dalla descrizioni visive e sonore del testo.

Le risorse minerarie hanno dunque generato sviluppo altrove. A Redeyef e nei villaggi circostanti rimane invece un vuoto economico e sociale: niente di ciò che si consuma viene prodotto in loco; i collegamenti con il resto del Paese sono complessi per mancanza di infrastrutture e mezzi; pressoché nulle sembrano essere le possibilità di quanti vivono intrappolati in questo immobile vuoto. Uno dei punti di forza de “Il bacino maledetto” è senza dubbio quello di illustrare i molteplici aspetti della “marginalità”, non solo regionale ma anche dei singoli individui.

Aymen, Mokhtar, Rafik, Zied e le tante altre voci che risuonano nel libro, intervistate da Pontiggia durante il suo lavoro di campo tra il 2014 e il 2015, cercano come possono di sopravvivere in un’esistenza faticosa, che scorre in giorni esasperatamente uguali scanditi tra pasti e caffè e sigarette.

Chi cerca la fuga verso l’Europa, magari sposando una donna dal passaporto rosso conosciuta su Facebook; chi si arrabatta per racimolare i soldi necessari alla propria famiglia negli interstizi dell’economia informale; chi è pronto a tutto per ottenere il tanto agognato impiego nella CPG, anche attraverso imbrogli e favoritismi.

Ci sono infine le lotte di protesta contro il destino di marginalizzazione della regione, in particolare quelle del 2008 e del 2011, segno di una forte coscienza della propria condizione di privazione, ma che spesso confluiscono in azioni non organizzate che portano a soluzioni appannaggio di pochi, senza che i problemi siano affrontati nella loro dimensione strutturale.

Con un approccio molto rigoroso e senza risparmiare a se stesso dubbi e quesiti sul suo ruolo rispetto all’oggetto di ricerca, Pontiggia riesce molto bene ad alternare la dimensione collettiva, il racconto di una regione e di una società nel suo complesso, con quella individuale delle singole storie.

Nel testo la marginalità emerge non solo nel senso di mera esclusione dall’accesso a opportunità e benessere, ma come una condizione di penuria e mancanza che innesca lotte di potere su vari livelli per l’accaparramento di risorse scarse, dando priorità al soddisfacimento dei bisogni individuali o della propria cerchia anziché alla costruzione di un percorso di lotta comune.

In contrapposizione alla narrazione dominante del Paese, purtroppo appiattita sulla capitale Tunisi e sulla tematica del terrorismo, “Il bacino maledetto” si distingue per la capacità di affrontare un tema complesso quanto importante, ulteriore esempio di come la Tunisia sia diventata un campo di ricerca accademica assai vivace e appassionante.

Foto di copertina di Stefano Pontiggia

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