Il limbo del dopo referendum

di Andrea Geniola

A cinque giorni di distanza dalla celebrazione del referendum dell’1 ottobre la Generalitat de Catalunya ne ha reso noto il risultato definitivo. I voti che le autorità catalane hanno potuto contabilizzare sono stati 2.286.217, pari al 43,03% degli aventi diritto. Nelle provincie di Girona e Lleida la partecipazione è stata superiore al 50%, rispettivamente 53,32% e 52,83%, mentre in quelle di Barcellona e Tarragona del 41,23% e del 40,62%.

I voti favorevoli alla costituzione di una repubblica catalana indipendente sono stati il 90,18%. Una cifra che sale nel caso delle province di Girona, Lleida e Tarragona alla cifra rispettivamente del 94,83%, 93,84% e 92,88%, mentre i Sì a Barcellona sono stati l’88,69%. Un dato interessante ma che è difficile contrastare in questo momento è quello del numero di persone il cui voto è stato sequestrato o non si è potuto emettere, che pare si aggiri attorno alle 700.000, secondo stime poco contrastabili.

A Barcellona città ad esempio sono andati “persi” 24.000 voti indipendentisti rispetto alle elezioni di un anno fa. I dati ci svelano che è proprio la provincia di Barcellona a vedere la maggior incidenza di voti contrari alla secessione, con il 9,08%. Un fatto importante che ci dice quando sia profondo nell’area della capitale l’appoggio alla celebrazione di un referendum che dirima la questione. È infatti estremamente significativo che in tutta la Catalogna 2.044.038 persone abbiamo votato per la repubblica catalana ma lo è anche il fatto che 177.547 si siano esposte alla repressione dello Stato per esprimere il loro voto negativo.

Ancor più interessante quanto analizza ElDiario.es . Secondo questo quotidiano on line spagnolo il numero di voti per l’indipendenza ha superato la quota elettorale raggiunta dall’indipendentismo il 27 settembre dello scorso anno e i voti non sano arrivati dai cosiddetti feudi nazionalisti, alcuni anche in caduta di consensi, bensì dalle aree metropolitane e industriali.

Le letture che se ne possono estrarre sono di differente profondità.

A mio parere si tratta del segnale di un probabile allargamento della base indipendentista a settori tradizionalmente refrattari alla questione, accompagnata da una flessione del voto “d’ordine”, forse anche dovuta alla chiusura materiale di determinati collegi. E qui bisognerebbe andare ad osservare collegio per collegio, tra quelli chiusi dalle forze dell’ordine, che tipo di voto avevano espresso un anno fa.

Sulla validità del referendum gli osservatori internazionali si sono pure pronunciati in maniera molto chiara in questi giorni. Nel processo non sono stati individuati segnali di irregolarità ma nelle condizioni di boicottaggio informatico e repressione fisica in cui si è svolto non sarebbe possibile vidimarlo né considerarlo effettivo. Ciononostante per dimensioni e data la determinazione mostrata dai votanti, la comunità internazionale dovrebbe prendere atto della sua celebrazione e prendere nota del risultato.

In definitiva lo Stato è riuscito a creare con la sua azione un contesto di mancanza di garanzie cui poi egli stesso si appella per screditare la consulta, prima fra tutte la messa fuori gioco della stessa Commissione Elettorale Centrale. Da più parti, quasi a legittimarne il risultato pur volendone delegittimare la celebrazione stessa, il referendum è stato considerato poco partecipato, o almeno dotato di una partecipazione scarsa per un referendum di questa portata. E anche in questo caso i detrattori della consulta affermano da una parte che la stessa partecipazione è stata maggiore delle aspettative proprio perché c’era la repressione dello Stato.

In altre parole, più di due milioni e mezzo di cittadini, tra cui famiglie, anziani e gente d’ordine poco avvezza al tumulto, si sarebbero recate ai collegi proprio per farsi malmenare e vessare dalla polizia. Se fosse davvero così allora ci troviamo dinnanzi al maggior movimento di disobbedienza civile che abbia visto l’Europa degli ultimi decenni. Da alcuni pulpiti dei media spagnoli ci siamo abituati ad ascoltare teorie della cospirazione secondo la quale centinaia di migliaia di cittadini avevano come consegna quella di farsi menare per alimentare un’immagine di vittimismo agli occhi della comunità internazionale.

In realtà quello che stanno affermando è che i principi stessi della disobbedienza non violenta sarebbero qualcosa di eversivo e complottardo.

I dettami del pacifismo non violento sono proprio quelli della denuncia della violenza come strumento coercitivo e atto di conculcazione della volontà democratica. Ma ad alcuni non interessa la forma di lotta politica bensì l’obiettivo; e se l’obiettivo è considerato negativo, anche la forma di lotta che lo articola lo diventa. Si respira da parte dei settori unionisti e anti-indipendentisti un crescente odio nei confronti del carattere gioioso e pacifico delle manifestazioni di questi anni. In ogni caso, l’argomentazione ausiliaria è stata in questi giorni che con una partecipazione del 43% non sarebbe stato comunque possibile rendere effettivo il referendum.

Un’argomentazione che andrebbe contrasta almeno con i dati della partecipazione in occasione del referendum per la Costituzione Europea del 20 febbraio 2005. Questa fu in Spagna del 42,32% e addirittura inferiore in Catalogna: 41,32% nella provincia di Barcellona, 40,66% a Girona, 39,74% a Lleida e 39,24% a Tarragona. Eppure il risultato di quel referendum così importante fu vidimato senza alcun tipo di polemica né accusa di mancanza di legittimità o richieste di soglie minime di partecipazione da parte dei grandi partiti “costituzionalisti”.

Sarebbe necessario a mio parere mettersi d’accordo su alcuni parametri da far rispettare sempre, altrimenti si potrebbe avere l’impressione che la divisoria tra legittimo e illegittimo e tra legale e illegale sia a discrezione del potere e affatto oggettivabile e quindi impalpabile e opaca.

 

 

Certamente molti catalani non sono andati a votare perché contrari alla celebrazione del referendum esattamente come la maggior parte dei catalani non ha partecipato alla manifestazione unionista di domenica per le strade di Barcellona. Questa è stata organizzata dall’associazione Societat Civil Catalana (SCC) per mobilitare in questo momento (a quanto pare) decisivo quella che considerano essere la “maggioranza silenziosa” dei catalani, contraria alla celebrazione di un referendum. SCC è un’organizzazione nata nel 2014 con l’obiettivo di rappresentare il contraltare anti-indipendentista all’Assemblea Nacional Catalana (ANC) e Omnium Cultural. La compongono e appoggiano numerosi gruppi e personalità legate ai partiti di fedeltà nazionale spagnola.

Ben relazionata a livello internazionale, con ottimi contatti politici e diplomatici, SCC ottiene solo pochi mesi dopo la sua fondazione il Premio Cittadino Europeo da parte del Parlamento di Bruxelles. Che a mio parere sembra come dare a qualcuno un Premio Nobel in anticipo e sulla parola. Le inchieste pubblicate su questo gruppo ne svelano da subito alcuni punti oscuri che hanno prodotto da più parti la richiesta di ritiro del premio. Il fotoreporter Jordi Borràs, esperto in movimenti di estrema destra e più volte minacciato e aggredito durante manifestazioni unioniste e di estrema destra, ne ha raccolto la breve storia nel suo “Desmuntant Societat Civil Catalana” (2015). Nel libro si svelano i finanziamenti opachi, e ciononostante copiosi, dell’associazione nonché i rapporti fondazionali con movimenti di estrema destra spagnolisti e xenofobi in Catalogna.

 

 

La celebrazione di questa manifestazione merita alcune considerazioni, innanzitutto numeriche. Gli organizzatori hanno dato la cifra di 950.000 partecipanti mentre la Guardia Urbana quella di 350.000. Ad uscire dal solito ballo incontrollabile delle cifre possono aiutare le foto aeree della manifestazione e una loro comparazione usando una semplice cartina di Barcellona con, ad esempio, la manifestazione indipendentista dell’11 settembre di quest’anno.

In quell’occasione la Guardia Urbana forniva la cifra di un milione di partecipanti mentre proprio fonti di SCC affermavano che gli indipendentisti non erano più di 220.000 unità. Se però osserviamo lo spazio urbano occupato dalla manifestazione di SCC (da Plaça Urquinaona, lungo tutta la Via Laietana, fino alla fine dinnanzi alla Estació de França) notiamo che questa non occupava al massimo un terzo dello spazio urbano occupato dalla manifestazione indipendentista della Diada (tutta Carrer de Aragó da Passeig de Sant Joan fino a quasi Avinguda de Roma e da Jardinets de Gràcia fino a una Plaça de Catalunya gremita di gente). Se per SCC la manifestazione indipendentista dell’11 settembre non arrivava a 220.000 allora quella di domenica dell’associazione unionista non dovrebbe aver superato le 60.000 unità.

Molto più realistico, quindi, anche per il bene di SCC, il dato fornito dalla Guardia Urbana. La realtà dei fatti è che la manifestazione unionista di domenica hanno radunato 350.000 persone, quando lo sciopero generale di martedì scorso contro la repressione dell’1 ottobre ne aveva aggregate 700.000 con le sole forze della società civile di Barcellona e dintorni.

Ragionare sui i numeri, per non cadere nelle manipolazioni delle agenzie di stampa di coloro che organizzano le manifestazioni, è una parte importante dell’analisi proprio perché la battaglia dei numeri è diventata parte integrante della battaglia della narrazione su chi rappresenta o meno la maggioranza dei catalani.

Tanto importante da rendere necessario ricordare che durante tutti questi anni, all’indomani di ogni manifestazione di massa dell’indipendentismo i partiti di fedeltà nazionale spagnola (unionisti, o costituzionalisti come si fanno chiamare) facevano notare che, sebbene fossero scese in piazza un milione e mezzo di persone o più, il vero dato restava che gli altri cinque o sei milioni di catalani erano rimasti a casa, infanti compresi.

Ecco, se dovessimo valutare sulla base di questo paradigma la partecipazione alla manifestazione unionista di domenica, dovremmo dire che è sceso in piazza per la difesa di una Catalogna spagnola solo lo 0,75% degli spagnoli. E diciamo “degli spagnoli” perché quella di domenica è stata una manifestazione organizzata con una densa ed evidente partecipazione di cittadini provenienti in autobus, aereo o treno da tutti gli angoli della Spagna.

Addirittura gli organizzatori hanno messo su l’iniziativa “Adotta un madrileño”, per coordinare l’accoglienza in case private dei partecipanti alla manifestazione. Ma anche se quei 350.000 fossero tutti cittadini residenti in Catalogna potremmo dire che si tratta di una cifra nove volte inferiore a coloro che hanno partecipato al referendum dell’1 ottobre, e che hanno potuto manifestare liberamente il loro pensiero senza che nessuno cercasse di impedirglielo con la forza.

Un’altra considerazione merita la composizione della manifestazione e il suo svolgimento. Vi aderivano PP, Ciudadanos e in una formula altamente ambigua anche il PSOE; uno dei suoi ex dirigenti e ed ex presidente del parlamento europeo, Josep Borrell, è tra le teste visibili della manifestazione.

I socialisti catalani non vi hanno aderito dando però indicazione di partecipazione a titolo individuale. I partiti “costituzionalisti” hanno condiviso la piazza con movimenti come Falange Española, Democrácia Nacional e due formazioni regionaliste catalane xenofobe e contrarie all’indipendenza come Plataforma per Catalunya e Somatemps.

Nel caso dei secondi si tratta di una piattaforma composta da alcuni dei fondatori stessi di SCC. Risulta altamente significativo il fatto che partiti e organizzazioni così differenti abbiano trovato nella difesa dell’unità della Spagna un minimo comun denominatore. In una manifestazione tutto sommato tranquilla non sono mancate infatti le baruffe, le vetrine rotte, le aggressioni, i saluti romani, le bandiere carliste, che come segno di fedeltà ai Borbone suonano un po’ fuori luogo… Svariate pattuglie dei Mossos sono state aggredite mentre i manifestanti sfilavano omaggiando il commissariato della Policía Nacional di Via Laietana.

Lo stesso è accaduto alle unità del corpo dei pompieri, accorse a spegnere un incendio provocato da un gruppo di manifestanti nei pressi di Plaça de Catalunya. Un fotografo freelance è stato aggredito a Passeig de Gràcia, a quanto pare perché confuso per un giornalista di TV3, la televisione pubblica autonoma catalana. Eppure questa ha seguito in diretta tutta la giornata, con interviste tra i manifestanti quando possibile. Le immagini di gruppi consistenti di fascisti che fanno il saluto romano dinnanzi a reparti di Policía Nacional sorridenti e complici, senza che si producesse alcun intervento da parte di forze dell’ordine di un paese democratico è qualcosa che dovrebbe far riflettere.

Il titolo della manifestazione,“Prou! Recuperem el Seny” (Basta! Ritorniamo alla sensatezza), è un altro elemento che suggerisce utili riflessioni. In esso si faceva esplicito riferimento non già a un valore universale di cittadinanza né al rispetto dello stato di diritto bensì a una delle costruzioni più classiche dell’immaginario ottocentesco catalano. Il “seny” nella visione regionalista di una Catalogna spagnola rappresenta quell’essenza etnica “autenticamente catalana” che vive in relazione dialettica con la “rauxa” (una rabbia esplosiva), come se si trattasse di una dinamica taoista.

Fare appello a questi valori etnoculturali immaginari non ha fatto parte in tutti questi anni ad esempio del movimento indipendentista ed è un indicatore rappresentativo di dove bisognerebbe cercare il particolarismo in questa difficile questione.

Fatte queste considerazioni la manifestazione ha comunque portato alla luce una realtà esistente, nonostante le modalità di svolgimento e quella percezione di “invasione coloniale” che ha generato anche un nuovo videogioco in open access, “Spanish Invasion”. È estremamente positivo che i cittadini scendano in piazza, è un segno di buona salute democratica e, inoltre, permette anche di osservare le posizioni che vi si manifestano, al di fuori della retorica parlamentare o giornalistico-propagandistica.

In questa manifestazione c’era di tutto e il suo contrario: gente che rivendicava l’applicazione dell’articolo 155 e gente che era contraria; coloro che vorrebbero un negoziato e coloro che inneggiano all’operato delle forze dell’ordine l’1 ottobre e rivendicano l’arresto in blocco del governo catalano; persone disorientate e intimorite da una situazione nuova e fanatici che chiedono l’applicazione immediata dell’Articolo 116.

Enormi contraddizioni in termini, ben rappresentate dal cartellone della foto qui in basso, dove in grande si legge che “Hanno fatto più danni delle schede che tutte le bombe di ETA” ma che poi aggiunge timidamente tra parentesi “No alla violenza, Sí al dialogo”.

 

 

In un’orgia di esaltazione patriottica, orfana della regista Isabel Coixet che 24 ore prima aveva smentito la sua presenza sul palco, lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa pronuncia le seguenti parole di chiusura: “Quelli che sono qui oggi sono catalani che non sono traditori ma che credono nella democrazia (…) Il nazionalismo ha riempito l’Europa di sangue e adesso fa danni in Catalogna. Per questo siamo qui, per fermarlo”.

Forse mentre pronunciava queste parole non si accorgeva che quella che stava chiudendo solennemente era una manifestazione nazionalista, sebbene di segno opposto a quello a lui sgradito e forse invisibilmente nazionalista ai suoi occhi. Frattanto quasi nessuno si occupava più delle manifestazioni che in tutte le capitali di provincia delle Spagna chiedevano, in bianco e senza bandiere, il blocco di qualsiasi iniziativa ulteriore da parte delle forze in campo e l’avvio urgente di un negoziato tra le parti.

Eppure quanto in gran parte ci conferma la manifestazione di domenica è che l’unica soluzione al conflitto politico in corso è la celebrazione di un referendum sulla secessione. Qualsiasi soluzione non referendaria sarebbe fuori dalla realtà e dai procedimenti democratici di risoluzione dei conflitti normalizzatisi durante l’ultimo secolo.

Saremmo però degli ingenui se non ci accorgessimo che questa manifestazione non è altro che un tassello di una strategia complessiva di pressione contro l’indipendentismo.

Serve certo a offrire alla stampa alleata e conforme l’assist per poter dire cose come: “I catalani contro la secessione” o “I giovani non vogliono l’indipendenza”, ecc. Di ben altra natura sono invece i movimenti che si sono verificati nei giorni precedenti e che in parte l’hanno preparata come momento culminante della strategia anti-indipendentista. In primo luogo, il discorso del Re Filippo VI di martedì scorso. In questi giorni si è scherzato molto sui social sulla poca capacità di veduta strategica della Casa Reale. Personalmente non sono d’accordo con questa lettura banalizzante. Il monarca Borbone avrebbe di certo potuto scegliere un’altra via ma non l’ha fatto scientemente.

Questa sarebbe potuta essere, ad esempio, presentarsi come figura super partes, promuovere un dialogo e appoggiare la via della riforma costituzionale in senso federale con la sola Corona a garanzia dell’unità dello Stato e non già della nazione, garantendosi così la gratitudine di tutti e un radioso futuro per la sua dinastia. Cercando così la via per un tipo di associazione della Catalogna non già alla corona bensì alla casata in una forma associativa che avrebbe potuto risolvere in anticipo anche le future evoluzioni basche e galiziane che potrebbero mettersi sulla via catalana in un futuro non molto lontano.

Probabilmente una via impossibile tenendo a mente sia la storia della casata in questione e la relazione quasi organica con l’essenzialismo nazionalista e il burocratismo autocratico sia il crescente rifiuto nei confronti della monarchia in una Catalogna da sempre terra di consistenti sentimenti repubblicani e libertari.

Ma c’è di più. Come ha sottolineato Javier Pérez Royo, ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università di Siviglia, il Re è andato al di fuori del suo mandato ignorando lui stesso o violando apertamente il ruolo che la Costituzione del 1978 gli assegna (e circoscrive) agli articoli 1.2 e 1.3 (“Ara”, 8/10/2017). Il Re ha una potestà limitata e circoscritta e il suo discorso è di per se stesso anti-costituzionale. A quanto pare con il suo intervento il monarca Borbone si è messo al servizio di un progetto politico concreto contro una parte dei suoi sudditi.

Questo si articola attraverso una pressione illegalizzatrice continua l’ultimo episodio della quale è la proibizione della seduta del Parlament per ieri, per il sospetto (fondato) che durante la stessa si pronunciasse un qualche tipo di risoluzione d’indipendenza o similari in ottemperanza ai precetti della già sospesa/illegalizzata Legge del Referendum. Mentre i responsabili di Omnium Cultural, ANC e dei Mossos sono chiamati a dare conto di disobbedienza e sedizione presso l’Audiencia Nacional. Sulle terreno della minaccia istituzionale ci troviamo dinnanzi alla continua minaccia di applicazione degli articoli 155 e del 116 della Costituzione.

Il primo rappresenterebbe la sospensione dell’autonomia in vigore e l’assunzione da parte dello Stato di tutte le competenze centrali oggi trasferita a Barcellona. Un’autorità dello Stato in Catalogna, con tutta probabilità il Delegato del Governo (Prefetto) Enric Millo, ex Unió Democràtica de Catalunya e attualmente in forze al PP, potrebbe diventare plenipotenziario in materia di affari catalani e gestire fuori dalle maggioranze politiche e sociali locali e contro di esse l’economia, l’educazione, i mezzi di comunicazione e l’ordine pubblico. L’unico atto di distensione (si fa per dire) da parte spagnola è venuto proprio da Millo.

Questo venerdì si è detto dispiaciuto per i feriti dell’1 ottobre ma ha affermato che l’unico responsabile della situazione è il governo catalano che ha messo le urne nei collegi e chiamato i cittadini a votare.

Di ben altra foggia le esternazioni non già del governo del PP bensì dei dirigenti ed ex dirigenti del PSOE. Nell’intervista concessa a TVE giovedì sera l’ex ministro socialista José Bono (comunque noto per le sue posizioni nazionaliste e teatralità nell’esprimerle) si dichiarava a favore dell’applicazione del 155 e nel caso anche del 116 e affermava che la politica portata avanti dalla Generalitat era paragonabile al tentativo di colpo di stato militare del 23-F. Alfonso Guerra, altro ex ministro socialista, mercoledì si era mostrato contrario ad una mozione di censura nei confronti di Rajoy.

Guerra è conosciuto per la famosa frase “ci siamo fottuti lo statuto catalano in commissione”, celebrata l’8 aprile 2006 durante un meeting socialista a Barakaldo, fra le risate complici dei presenti. Con tutta probabilità se in quel momento la questione catalana fosse stata trattata con più lungimiranza e come un’occasione per la federalizzazione dello Stato, così come proponeva il governo catalanista di sinistra insediato in quel momento al governo della Generalitat (PSC-PSOE, ERC, ICV-Verdi), l’indipendentismo non sarebbe diventato un movimento di massa o ci avrebbe messo decadi per diventare tale. Giovedì un gruppo di ex dirigenti e baroni del PSOE ha pubblicato su “El País” una lettera aperta all’attuale Segretario, Pedro Sánchez, rivendicando l’appoggio del partito alla difesa dell’ordine costituzionale in difesa dell’unità nazionale . Queste affermazioni sono importanti perché hanno l’obiettivo di incidere sulla posizione che prenderà in futuro in parlamento il PSOE.

Questi ha la chiave della situazione dato che l’applicazione degli articoli 155 e 116 può avvenire solamente previa approvazione in parlamento. Da questo punto di vista la partita che sta giocando il PSOE è rischiosissima e il partito potrebbe sparire progressivamente, assorbito dalle politiche di PP e Ciudadanos, o diventare un comprimario nell’orbita di Podemos. Insomma, è il PSOE che può impedire che la Spagna si trasformi in una specie di democrazia alla turca nel cuore dell’Europa.

Tale preoccupazione però non sembra scalfire i governanti europei, almeno per il momento. L’appoggio alla Spagna dei poteri forti ed organi di governo dell’Unione Europea, Commissione Europea in testa, così come della maggioranza parlamentare a Bruxelles è, almeno in pubblico, totale e in alcuni casi anche plateale.

La posizione ufficiale dell’Unione Europea è che la questione catalana è un fatto interno di uno Stato membro e che questo usa tutta la legittimità che gli viene dalla legalità costituita. Ma l’elemento di pressione più potente di questa settimana nei confronti della dichiarazione d’indipendenza è stato il susseguirsi del trasferimento fuori dalla Catalogna della sede sociale delle maggiori imprese finanziarie, multinazionali e di servizi del paese; Banc Sabadell si è trasferito ad Alicante, La Caixa a Palma de Mallorca, Mediolanum a Valencia, Gas Natural e AgBar (Acque di Barcellona) a Madrid e così via tutte le altre in un interminabile effetto domino. La questione, molto complessa, può essere interpretata in vari modi.

La prima che viene in mente è che queste entità finanziarie stiamo semplicemente mettendosi al riparo da possibili uscite dalla zona euro, amche provvisorie, in caso di secessione immediata. Ma il fatto che molte aziende britanniche in pieno Brexit continuino ad operare tranquillamente nei mercato europei lascia spazio ad altre possibilità di lettura. Un indizio di rilievo, ad esempio, è la rapidità con la quale il governo di Madrid ha facilitato questa fuga attraverso un decreto ad hoc; un governo che di solito mostra una certa lentezza decisionale. Quindi si tratterebbe di una misura di pressione senza troppe conseguenze, anche perché il trasferimento, almeno per il momento, riguarda solo le sedi sociali e non le attività economico-finanziarie in sé.

Ciononostante la riflessione che è opportuno fare ci pare essere un’altra. E se questa fosse l’occasione del rinazionalizzare e rimettere in mani pubbliche l’acqua, il gas, la luce e contestualmente rifondare il sistema di casse di risparmio magari secondo i nuovi precetti della banca cooperativa? Anche questa una delle possibilità che un processo di secessione può comportare, anche se non necessariamente questo può succedere in maniera meccanica. Una cosa però è certa. La lettura per molto tempo diffusa, ripetuta da più parti, secondo la quale il movimento indipendentista sarebbe una creatura della borghesia catalana, costruita per difenderne gli interessi organici, pare essere quantomeno avventata. Se per interessi della borghesia intendiamo l’insieme della classe e i suoi interessi articolati attraverso determinate entità e istanze, a quanto pare il loro progetto politico non è l’indipendenza della Catalogna, cosa che le entità in questione hanno ripetuto più volte. D’altronde nota è l’ostilità di Banc de Sabadell e La Caixa nei confronti dell’indipendentismo.

In questo contesto, per oggi è fissata una nuova seduta del Parlament in cui si prevede che il President Puigdemont pronunci qualche tipo di dichiarazione d’indipendenza o simili.

Frattanto il Cercle d’Economia di Barcellona (entità rappresentativa del padronato locale) ha chiesto al Presidente di rinunciare alla dichiarazione d’indipendenza. Quali possibilità ci sono sul tappeto allora? Il percorso segnato dalla maggioranza parlamentare in Catalogna prevede che alla vittoria del Sì nel referendum faccia seguito, come atto dovuto, una dichiarazione d’indipendenza, con l’attivazione della Legge di Transitorietà e l’avvio di un processo costituente.

È difficile capire in che maniera potrebbero articolarsi delle alternative a questa via o delle declinazioni differenti della stessa. Una potrebbe essere, e vi sono segnali in tal senso provenienti dal partito del President, il PDECat, una dichiarazione di principi che rivendichi il risultato del referendum come base di un negoziato cui dovrebbero però implicarsi organismi internazionali.

E da questo punto di vista molti si sono offerti come mediatori, a partire della Svizzera in qualità di paese neutrale e fuori dall’UE, ma nessuno è stato nemmeno preso in considerazione da parte di Madrid. Infatti l’unico negoziato che prevede lo Stato al momento è quello sulle condizioni della resa politica dell’indipendentismo e sulla condizioni di un limitato ristabilimento della normalità istituzionale. Il problema di fondo è che le due parti non concordano nemmeno sui termini di partenza di un negoziato e il conflitto adesso è tra istituzioni che esprimo e rappresentano sovranità differenti.

Per Madrid un referendum di secessione accordato è fuori discussione. Per Barcellona questo è il minimo sindacale per poter accordare tempi e modalità di tutto il resto. Per le opposizioni del resto della Spagna che più si stanno spendendo per una soluzione dialogata (quelle della Dichiarazione di Zaragoza per intenderci) è fondamentale trascinare il PSOE verso posizioni più moderate, fuori dall’abbraccio mortale del PP, e usare la forza propulsiva della mobilitazione catalana per avviare un processo di riforma costituzionale e una costituente federale per tutta la Spagna.

Ciononostante ho la sensazione che in questo momento, se mai questa via fosse praticabile davvero, vista la deriva nazionalitaria delle élites spagnole, dei mass media e delle oligarchie messe dinnanzi alla materializzazione di una secessione, la nuova Costituzione potrebbe risultare essere peggiore di quella in vigore, ancor più restrittiva. Insomma, vedo poco probabile una vittoria delle sinistre in elezioni costituenti spagnole in questo momento.

D’altro canto una dichiarazione d’indipendenza in questo momento significa la fine dell’autonomia e l’apertura di un conflitto di altra natura, in cui la Catalogna sarebbe preda delle forze di polizia ed esercito sguinzagliate in queste settimane.

E ci sono segnali di una possibile frantumazione del PDECat in caso di dichiarazione d’indipendenza. Cosa che lascerebbe la guida della possibile costruzione nazionale catalana nelle mani delle sinistre: ERC, CUP, indipendenti di sinistra del Governo catalano provenienti da PSC-PSOE, PSUC e ICV o dal sindacato UGT. Mentre l’unica alternativa praticabile in questo momento alla dichiarazione d’indipendenza è quella di una sorta di limbo politico-istituzionale in cui il governo di Madrid continua a governare in minoranza grazie all’appello alla difesa dell’unità nazionale e il governo catalano resta monco di molte attribuzioni e capacità, salvo sorprese. Una situazione in cui il processo e il conflitto in corso si eternizzano e quasi normalizzano senza via d’uscita.

Quindi, in caso di dichiarazione di indipendenza, si tratterà di capire con quali ritmi questa si attiva e quali attitudini negoziatrici o repressive (o una modulazione di entrambe) adotterà lo Stato.

Insomma, nella prima uscita di questi quaderni indicavamo la dicotomia tra una sardana autonomista e un mambo indipendentista. In questi giorni, rimanendo nella metafora, stiamo vivendo un limbo istituzionale con possibilità di evoluzione verso la marcetta militare.

 

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