I giornalisti del futuro

Come potrebbe cambiare il mestiere d’informare? Primo giorno dentro un corso dell’Università di Westminster

di Alice Facchini

È il primo giorno di scuola per gli Enrico Mentana e le Milena Gabanelli del futuro, o sarebbe meglio dire per i Louis Theroux e le Kate Adie: mi trovo infatti a Londra, alla giornata di benvenuto del master in giornalismo della University of Westminster, uno dei più rinomati d’Europa, da cui sono usciti alcuni importanti reporter dei giorni nostri.

Davanti al modernissimo palazzo vetrato quasi dimentico di essere in una remota periferia lontana decine di chilometri dal centro della città, in una zona conosciuta quasi esclusivamente per la grande comunità indiana che la abita. Da queste parti di londinesi se ne vedono ben pochi.

Entrata nella hall sembra di aver fatto un salto nel futuro: quasi tutti hanno in mano un iPhone, un MacBook o un iPad, pare che il divino Steve Jobs qui non abbia più nessuno da convertire. La caffetteria sforna con ritmo regolare grossi bicchieri di carta chiusi da un tappo di plastica con su scritto “espresso”, “creamy”, “americano”, mentre a pochi metri i conduttori di Smoke Radio iniziano la prima trasmissione dell’anno accademico dalla loro postazione, una grande bolla dalle pareti di vetro con dentro un intreccio di cavi, microfoni e cuffie.

Le facce degli studenti sono come libri con lontanissime storie da raccontare: una ragazza con il tilaka, il punto rosso disegnato in mezzo agli occhi, si guarda intorno sorridendo distrattamente a possibili nuovi amici, un giovane con la pelle nera e un casco di capelli riccissimi risponde al cellulare inaspettatamente in tedesco, mentre una ragazza araba attraversa l’atrio a passo svelto mentre parla con l’iPhone incastrato tra la guancia e il velo. L’unica cosa che ci accomuna tutti è una lingua, l’inglese, groviglio di suoni estranei e ostili ma anche un appiglio, una chiave che apre le porte del comunicare con l’altro.

Tra questi volti, mi dico, ci sono i giornalisti del futuro. Coloro che sceglieranno quali notizie raccontarci e come raccontarcele. Coloro che ci influenzeranno nel momento di comprare, di votare, insomma di scegliere.

Ci sediamo nel grande auditorium dove ci aspetta la presentazione del corso e il benvenuto dei docenti. “Da oggi entrate ufficialmente a far parte dell’industria dell’informazione”, ci dicono raggianti. “Il vostro obiettivo sarà quello di ideare e realizzare prodotti appetibili per un consumatore sempre più affamato di notizie. Vi insegneremo a essere veloci, sempre di più, perché oggi vince chi arriva prima. Ma attenzione, in un mondo che cambia rapidamente tutto quello che imparerete tra qualche anno sarà già obsoleto, starà a voi mantenervi aggiornati sulle nuove tecnologie”.

Questo discorso inizialmente mi ha fatto rabbrividire. Mi sono chiesta, ma chi saranno i giornalisti del futuro se anche in una scuola così prestigiosa si insegna che il giornalismo è un’industria che fabbrica prodotti da vendere il più velocemente possibile?

Dov’è finito il giornalismo come missione, il giornalismo come cane da guardia dei potenti, il giornalismo che smaschera le ingiustizie?

Ma poi ho capito che bisogna guardare i fatti, e i fatti danno ragione a loro. La verità è che il giornalismo sta andando sempre più nella direzione della rapidità, dell’agilità, della notizia scritta in pochi caratteri da leggere di sfuggita con lo smartphone sulla strada verso l’ufficio o mentre prepariamo la cena. Il giornalismo mordi e fuggi, il giornalismo da click sui social, il giornalismo della postverità.

A un master così importante ti devono insegnare tutto, anche questo. Ti devono preparare a fare gavetta, e fare gavetta per un giornalista significa anche stare ore davanti a uno schermo a impacchettare le notizie di agenzia, o a trascrivere le interviste degli inviati più importanti, o a pensare alle poche parole da pubblicare su Facebook per introdurre un articolo.

Un giornalista deve saper fare tutto e saperlo fare bene: per dimostrare quanto vali bisogna cominciare da lì, per poi magari passare a compiti più complessi.

Ma anche in quel caso, il giornalismo rimane una professione come un’altra. Ci si sveglia la mattina, si beve un caffè, si va in ufficio e lì bisogna scrivere, o meglio “produrre”, anche quando non è giornata, anche quando manca l’ispirazione. Non sempre si possono approfondire temi importanti, lavorando su grandi inchieste e uscendo con nuovi scoop, la maggior parte delle volte si parlerà di qualcosa che dopo pochi giorni non avrà più alcun valore. Il giornale deve andare in stampa, il telegiornale deve andare in onda, insomma l’industria non può fermarsi. Questa è la realtà, che ci piaccia o no.

Poi però mi viene in mente un passo di Tiziano Terzani in Un indovino mi disse: “Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare, darsi tempo, stare seduti in una casa da tè ad osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l’amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente là dove si è: basta scavare”.

Darsi tempo, osservare, scavare. Parole diverse, che danno al giornalismo un significato altrettanto diverso. Terzani era un giornalista di un’altra epoca, questo è sicuro, ma se fosse stato presente qui oggi non so cosa avrebbe pensato di questi professori che equiparano la professione che per lui era una “missione religiosa” a un’instancabile industria della notizia che rapidamente macina nei suoi ingranaggi gli eventi e li sputa fuori sotto forma di tweet o di articolo breve formato app. Avere uno stile chiaro e accessibile è un conto, diverso è ammiccare al lettore e renderlo ancora più pigro con testi sempre più scarni e poveri di linguaggio. Perché così il giornalismo abdica a una delle sue funzioni più nobili, quella di educare.
Nel grande auditorium passano le ultime slide che mostrano le alte percentuali di occupati post laurea. Molti hanno trovato lavoro in televisione, altri in radio, altri ancora nella carta stampata, ma il settore che oggi offre più possibilità di tutti è, guarda caso, il web.

Insomma ci sono tanti tipi di giornalista: nell’industria dell’informazione c’è spazio per tutti, basta solo sgomitare un po’.

L’incontro è finito, la sala inizia a svuotarsi. Mentre raccolgo le mie cose rifletto e penso alla scena di Fort Apàsc, il film sulla vita di Giancarlo Siani, in cui Sasà spiega la differenza tra giornalisti giornalisti e giornalisti impiegati: “Ci stanno due categorie: ci stanno i giornalisti giornalisti e i giornalisti impiegati. Io in verità ho scelto la seconda categoria e devo dire che non mi trovo male. Sì, tengo la macchina, tengo la casa, tengo l’assistente sanitaria e tengo pure il cane… perché i giornalisti giornalisti sono tutta un’altra cosa, Giancarlo. Quelli portano le notizie, gli scoop e non sempre si devono aspettare gli applausi della redazione. No, perché le notizie e gli scoop sono una rottura di cazzo… fanno male, fanno malissimo e allora, se ti posso dare un consiglio, stai a sentire Sasà: l’inchiesta che stai facendo, io non ne voglio sapere niente. Dai retta a me, questo non è un paese da giornalisti giornalisti, è un paese da giornalisti impiegati”.

Spero solo che in futuro nell’industria dell’informazione ci sia spazio anche per qualche giornalista giornalista, che possa infilarsi e sgattaiolare in mezzo alle schiere di velocissimi e tecnologicissimi giornalisti impiegati.