Priorità europee, realtà libiche

Un punto necessario sulla situazione

di Daniel Howden, tratto da Open Migration

– FOTO DI COPERTINA DI FEDERICA MAMELI, DA OPEN MIGRATION

News Deeply ha da poco pubblicato un importante lavoro di lungo formato dal titolo Central Mediterranean: European priorities, Libyan realities. Si tratta di una panoramica di Daniel Howden sulla situazione in Libia e nel Mediterraneo alla luce degli accordi economici dell’Italia per fermare il flusso di migranti – dagli attacchi alle Ong durante l’estate alla situazione sul campo, con testimonianze di rappresentanti delle istituzioni internazionali e della società civile. Nella parte finale, Howden analizza la distribuzione dei fondi Ue in Libia, la situazione critica nei centri di detenzione, la reale misurazione dei flussi, e la competizione fra le iniziative diplomatiche sul campo. Siamo lieti di pubblicarne questo estratto per l’Italia.

La versione originale e integrale di Central Mediterranean: European priorities, Libyan realities di Daniel Howden si può leggere qui (ricerche di Nancy Porsia)

Tutte le priorità sono uguali, ma alcune sono più uguali di altre

Quando l’Unione Europea insiste di voler fare di più che intrappolare i migranti in Libia, al centro del discorso c’è Il Fondo Fiduciario d’Emergenza per l’Africa da 3 miliardi e mezzo di dollari, che comprende i 108 milioni di dollari annunciati ad aprile 2017 e destinati a progetti locali di sviluppo in Libia e al miglioramento della protezione per rifugiati e migranti.

Con questi fondi si vuole competere con l’economia del traffico di esseri umani che l’ammiraglio italiano Enrico Credendino ha stimato valga 390 milioni di dollari l’anno.

A cinque mesi dall’annuncio [dello stanziamento], il denaro è stato suddiviso fra cinque agenzie: l’Unicef, cioè il fondo per l’infanzia delle Nazioni Unite; l’agenzia per le migrazioni delle Nazioni Unite, l’Oim; l’agenzia per i rifugiati, l’Unhcr; il programma di sviluppo Undp, e l’agenzia tedesca di aiuti Giz – ma in Libia non è partito nemmeno un solo progetto di sviluppo.

Gran parte dei diplomatici europei a Tunisi non sono stupiti del fatto che un fondo europeo elargito attraverso agenzie delle Nazioni Unite si muova a passo di lumaca. L’Unione europea, le Nazioni Unite e le agenzie per gli aiuti gestiscono i loro programmi in remoto dalla Tunisia. Per ragioni di sicurezza, alle agenzie delle Nazioni Unite è consentita una rotazione dello staff internazionale sul campo in Libia, da tre a cinque persone alla settimana. Il personale locale, al quale ci si affida per la maggior parte del lavoro, affronta abitualmente minacce e intimidazioni dai gruppi armati, ha detto un rappresentante Onu di alto livello. “Vogliamo evitare le trappole che in Libia si trovano a ogni passo, ma non possiamo far niente”, ha detto un diplomatico Ue che ha familiarità con il fondo fiduciario.

Senza ancora nulla che dimostri la sua priorità per lo sviluppo, la Ue ha cercato di dimostrare di fare progressi su un’altra priorità: migliorare le condizioni di detenzione per i migranti bloccati in Libia. Il grosso del denaro destinato a questo sforzo, circa 57 milioni di dollari, va all’Oim, la cui principale attività è il Programma per il Ritorno e il Rimpatrio Volontario Assistito. L’Oim ha cominciato il 2017 con l’obbiettivo, emanato dalla Ue, di riportare 5 mila migranti provenienti dalla Libia nei loro paesi d’origine. Da allora, l’obbiettivo è salito a 15 mila.

I rappresentanti dell’Oim dicono che potrebbero riportare indietro più persone se i paesi da cui queste provengono, come la Nigeria o il Senegal, avessero più personale consolare sul campo a Tripoli per espletare le procedure dei documenti di viaggio. Queste lamentele arrivano in un momento in cui l’Italia è l’unico paese europeo ad avere una presenza diplomatica permanente nella capitale libica.

La Libia non è tra i firmatari della convenzione per i rifugiati del 1951 e non offre asilo. Leggi che erano state approvate con l’incoraggiamento dell’Europa durante l’era Gheddafi criminalizzano l’immigrazione illegale. I migranti senza documenti possono quindi essere incarcerati. L’amministrazione di una rete di circa 29 centri di detenzione ricade sotto il Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale (Dcim), che riferisce al governo Serraj. La maggior parte dei migranti in Libia si trova di fronte alla scelta tra firmare per essere riportati a casa dall’Oim o essere detenuti a tempo indeterminato.

Mentre le dichiarazioni Ue sulla detenzione in Libia sottolineano periodicamente il ruolo dell’Oim e dell’Unhcr nel migliorare le condizioni [nei campi], la pressione a dimostrare di aver fatto progressi nel paese ha innescato tensioni fra le agenzie delle Nazioni Unite per i rifugiati e le migrazioni. In un tweet a settembre del 2017, l’inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo Centrale, Vincent Cochetel, è parso respingere il concetto che i riaccompagnamenti siano una panacea per la situazione infernale che rifugiati e migranti si trovano ad affrontare: “Le condizioni nelle carceri in #Libia non stanno migliorando. E non tutti vogliono o possono ritornare a casa. I rifugiati lì hanno bisogno di essere ricollocati”.

L’Onu sta cercando di ottenere dalle autorità libiche il permesso di aprire un centro sicuro per rifugiati a Tripoli. I rappresentanti dell’Unhcr insistono che non si tratterebbe di un campo profughi, ma di un centro di evacuazione in cui il personale identificherebbe coloro che possono qualificarsi per la protezione internazionale prima di portarli in aereo nel vicino Niger ad attendere la ricollocazione nella Ue. Ma restano forti preoccupazioni sulla sicurezza di una struttura del genere, dove i profughi si troverebbero ad attendere per sei mesi o più. Un distaccamento di Gurkhas, soldati del Nepal, è già in standby in Tunisia. Rappresentanti Onu hanno detto che nessuna forza di sicurezza avrebbe un mandato di peacekeeping.

Gli orrendi abusi che si patiscono nelle carceri per migranti in Libia vanno dallo stupro alla tortura ai lavori forzati. L’Oim e l’Unhcr hanno accesso limitato ai centri di detenzione e devono sempre fare richiesta scritta per entrare – non possono condurre ispezioni improvvisate. A monitorare le condizioni nelle prigioni ci sono anche il Danish Refugee Council e Msf, ma nell’ultimo anno il numero di centri a cui hanno accesso si è ridotto.

Le prigioni a cui le agenzie internazionali hanno maggiore accesso, a Tripoli e dintorni, hanno visto miglioramenti progressivi nell’ultimo anno; l’Oim ha costruito o riparato strutture di servizi igienici e ha fornito generatori. Fuori dalla capitale, in particolare lungo la costa verso ovest, l’accesso alle prigioni è minimo, per via dei posti di blocco delle milizie, degli scontri fra gruppi armati e di una florida industria dei rapimenti.

I detenuti nei centri per migranti vengono regolarmente dati in affitto a datori di lavoro locali, e a trarne profitto sono i rappresentanti del Dcim o i miliziani locali. I detenuti vengono anche comprati e venduti dalle milizie che estorcono pagamenti alle loro famiglie come riscatto. L’arrivo di fondi internazionali nel sistema carcerario ha creato ulteriori incentivi per i gruppi armati a prendere il controllo dei centri del Dcim in cerca di denaro e di legittimità.

In una lettera aperta a settembre del 2017, il capo di Msf, Joanne Liu, ha denunciato il sistema di detenzione in Libia come “marcio fino al midollo”. Ha scritto, “Va chiamato per quello che è: una prospera impresa di rapimento, tortura ed estorsione”, aggiungendo: “i governi europei hanno scelto di trattenere le persone in questa situazione. Le persone non possono essere rimandate in Libia, e non dovrebbero esservi trattenute”.

Mohamed Sifaw sa meglio di altri cosa succede all’interno dei centri di detenzione. Per 13 anni ha fatto il volontario per la Mezzaluna Rossa libica a Zawiya, una città portuale a ovest di Tripoli, che è stata uno dei punti chiave di partenza per le reti del traffico di persone. La Mezzaluna Rossa è l’unica organizzazione che ha accesso completo ai centri.

Alla prigione al-Nasr di Zawiya, gestita da una milizia legata alle reti di trafficanti ma riconosciuta dal Dcim dal 2016, i detenuti sopravvivono con un solo pasto al giorno. “Il fornitore chiede soldi al governo, e ogni volta le persone chiedono più cibo”, ha detto Sifaw.

Un altro centro di detenzione, uno dei due che si trovano vicino a Surman, è stato chiuso ad agosto dopo che i trafficanti di esseri umani sono entrati ripetutamente a prendersi dei detenuti, ha detto Sifaw. L’altro centro di Surman, che è solo per donne, non ha acqua pulita dopo che le scorte sono state contaminate con acqua salata.

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Una soluzione squisitamente italiana

(…) Sensibili alle accuse di aver intrappolato i migranti in Libia, ai parlamentari europei piace mostrare che il lavoro fatto in precedenza nei paesi di transito come il Niger stia contribuendo ad abbassare il numero di migranti che raggiungono la Libia, e quindi anche a un minor numero di attraversamenti in mare. Ma questa conclusione non è sostenuta dalle cifre. I dati più approfonditi sui flussi migratori verso e intorno alla Libia si trovano nella Displacement Tracking Matrix, una batteria di tabulati gestita da Dan Salmon presso l’Oim LIbia, che opera da Tunisi.

I dati, considerati il “punto di riferimento” per la comunità umanitaria e politica, sono basati su ricerche raccolte dalle autorità locali in tutta la Libia, così come da Ong locali. I numeri mostrano grosso modo 400 mila migranti in Libia, una cifra che è rimasta praticamente immutata per almeno tutto l’ultimo anno, e che comprende molti non libici che lavorano nel paese e che non hanno nessuna intenzione di cercare di raggiungere l’Europa. “Non è come contare teste al confine”, dice Salmon. “Dà soltanto un quadro generale, e tutti ci cercano un titolone”.

Un rappresentante di alto livello dell’Unhcr ha detto che non c’è nessuna indicazione di una diminuzione dei flussi verso la Libia da Niger, Sudan e Ciad, e che c’è solo un calo marginale negli arrivi dall’Egitto.

Per Helen, che resta nascosta in una casa di collegamento dei trafficanti, l’Europa che Juncker ha descritto a Bruxelles, che “protegge, rafforza e difende”, è ancora molto lontana. E non è sola. I trafficanti eritrei che telefonano a una trasmissione radiofonica gestita dall’attivista in esilio Meron Estefanos sostengono di avere, in una rete di case di collegamento, almeno 10 mila eritrei in attesa di lasciare la Libia. Il sindaco di Sabratha stima che nei porti e del nordovest della Libia e dintorni ci sia una strozzatura con 30 mila rifugiati.

Secondo stime Onu, dall’inizio del 2017 alla fine di agosto la Guardia costiera libica ha intercettato in mare quasi 11 mila migranti, e prove aneddotiche e fonti di sicurezza suggeriscono che il numero reale possa essere molto più alto. Coloro che vengono intercettati dovrebbero [in teoria] essere controllati nei posti di sbarco gestiti dall’Oim e dall’Unhcr prima di essere trasferiti nei centri di detenzione.

Ma non c’è stato nessun percepibile aumento del numero di persone detenute nei campi di detenzione ufficiali in Libia, e un rappresentante senior dell’Onu ha detto che molti rifugiati e migranti vengono mandati in magazzini illegali gestiti dai trafficanti. Ha specificamente citato Zawiya, a cui le agenzie internazionali non hanno accesso. “La domanda è: dove sono le persone?” ha detto.

Fra le risposte a questa domanda ci sono sotterranei improvvisati dove non esiste controllo locale o internazionale, dice Marwa Mohamed, una ricercatrice libica presso l’organizzazione per i diritti umani Amnesty International. “Concentrandosi solo sui centri di detenzione stiamo mancando il punto”, dice. “Le persone sono intrappolate in un paese in cui non c’è protezione né via d’uscita”.

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Peacemakers, chi agisce per procura, e un vuoto di potere

(…) Il maggiore ostacolo al processo di pace Onu attualmente in stallo, rilanciato all’Assemblea generale di New York a fine settembre, è l’abbondanza di iniziative rivali fra loro. L’Egitto sta spingendo per un piano che riorganizzi il vecchio esercito libico, mentre la Russia e gli Emirati Arabi sono stati accusati di sostenere le milizie armate sotto la guida di Haftar, potente signore della guerra nella Libia orientale. “Il vuoto diplomatico dell’ultimo anno ha dato origine a troppe iniziative concorrenti che hanno creato confusione tra le fazioni libiche, o che vengono da loro sfruttate”, dice Claudia Gazzini dell’International Crisis Group.

Ghassan Salame, un inviato speciale Onu in Libia, si è visto sfidare nella propria leadership per gli sforzi di pace dall’Unione Africana, che si è riunita in un mini summit all’inizio di settembre. L’Italia e la Francia, rivali nel Sahel per influenza e petrolio, hanno lasciato che la loro rivalità infettasse i colloqui di pace. Un incontro di alto livello fra Haftar e Serraj, il capo del Governo di Accordo Nazionale, si è tenuto a Parigi all’insaputa dell’Italia, secondo rappresentanti del governo italiano.

Lo sforzo francese è seguito a una dichiarazione in cui a luglio il presidente Emmanuel Macron diceva che la Francia avrebbe organizzato e gestito sul campo in Libia prima dell’estate degli “hotspot”, i centri Ue dove vengono processate le richieste di asilo – dichiarazione ritirata il giorno stesso.

Un’analoga mancanza di consultazione è avvenuta prima che a maggio i ministri dell’interno di Italia e Germania facessero un appello per una missione di polizia della Ue sul confine fra Niger e Libia. Vari analisti di sicurezza hanno detto che la mossa sarebbe stata scriteriata, e l’iniziativa è stata archiviata. Ma azioni unilaterali e aspettative non realistiche da parte degli stati membri della Ue hanno lasciato esausti i diplomatici Onu ed europei che lavorano in Libia. “Siamo al punto che le ambasciate si chiamano fra di loro dicendosi di ignorare ciò che questo o quel ministro o leader ha appena detto”, dice un diplomatico Ue. “Sono i professionisti all’interno delle istituzioni che stanno trattenendo i politici dal realizzare queste idee folli”.

Il desiderio fra i leader europei di essere visti come quelli che controllano la migrazione sul breve periodo ha preso il sopravvento su un approccio alla Libia più paziente e responsabile. Il compito di migliorare le condizioni per i migranti dentro la Libia è stato lasciato alle agenzie Onu per i migranti e rifugiati, che hanno ottimi fondi ma non sono in grado di operare in modo efficace. Cochetel, l’inviato speciale dell’Unhcr, ha detto che la sua agenzia è sotto pressione per via di “considerevoli aspettative da parte delll’Unione europea” che tengono poco conto della realtà sul campo in Libia. “La Libia non è la Turchia; non c’è pace né ordine che siano sostenibili e non c’è una soluzione rapida”, ha detto. “In questa fase non si tratta di metterci più risorse, come credono alcuni paesi”.

A Bruxelles, rappresentanti importanti della Ue hanno ammesso privatamente che la brusca riduzione negli attraversamenti in mare è “insostenibile”. Sul campo a Sabratha, gli accordi italiani sono stati il catalizzatore di seri scontri fra gruppi armati rivali, che si sono intensificati al punto da minacciare gli equilibri di potere in Libia.

I recenti combattimenti hanno messo la brigata Anas contro forze tra le quali ci sono la Operation Room, originariamente formata per combattere i militanti dell’Isis, e la brigata al-Wadi, che gestisce una rete rivale di trafficanti. Tutte le parti coinvolte sostengono di essere legittime forze di governo perfino mentre vengono usate armi da fuoco in quartieri civili e si spara contro la Mezzaluna Rossa libica. “il catalizzatore degli ultimi combattimenti è stato il nuovo assetto sulla migrazione”, dice Mark Micalleff, analista specializzato sulla Libia, “ma affonda le sue radici in rivalità tribali storiche e ideologiche più complesse”.

Molte persone del luogo sono arrabbiate per la legittimità che è stata conferita dall’esterno a coloro che vedono come banditi armati. Un uomo d’affari di Sabratha, che ha chiesto di restare anonimo, si è lamentato dicendo che si tratta di “una battaglia fra una milizia che è stata pagata e un’altra che vuole essere pagata”.

In copertina: A., 25 anni, ha lasciato la Guinea per studiare in Algeria e diventare agronomo. È stato rapito e comprato in Libia. Picchiato ogni giorno, ha deciso di attraversare il mare piuttosto che morire in un centro di detenzione libico (foto: Federica Mameli)

L’inchiesta di News Deeply è stata realizzata con il sostegno di Journalismfund.eu